L’Italia, la Repubblica dell’eccezione permanente
Istituzioni ed economia

L’Italia è finita sotto osservazione a Bruxelles per l’evidente degrado dello Stato di diritto. Un recente rapporto pubblicato dalla Civil Liberties Union for Europe, insieme a una rete di 43 organizzazioni civiche, ha inserito il nostro Paese tra quelli che più sistematicamente stanno erodendo le garanzie democratiche. Le accuse non sono generiche: si parla di uso abnorme dei decreti-legge, interferenze politiche nella giustizia, pressioni sull’informazione, intimidazioni verso la società civile. La fotografia è chiara, ma sembra non interessare quasi a nessuno.
Nel frattempo, il governo ha approvato un nuovo decreto sicurezza che consente la raccolta dei dati biometrici durante le manifestazioni e rafforza i poteri delle forze dell’ordine, con norme che scoraggiano il dissenso anziché tutelare l’ordine in senso liberale. È la logica dell’emergenza resa permanente: ogni crisi diventa un’occasione per comprimere spazi di libertà, ogni eccezione si fa regola.
A nulla sono valse le lettere firmate da decine di organizzazioni civiche europee e indirizzate alla Commissione: si chiede una reazione concreta, non solo ammonimenti retorici. Ma da Roma nessuno risponde, né si assume la responsabilità di aprire un confronto pubblico. La strategia è il silenzio. E questo silenzio istituzionale si riflette in un’opinione pubblica anestetizzata, che tollera senza reagire e, forse, non è più nemmeno in grado di distinguere.
Un altro fronte preoccupante è quello dell’informazione. Secondo il Media Freedom Report, l’Italia è tra i Paesi in cui il pluralismo è più a rischio. La concentrazione proprietaria, la dipendenza economica dai finanziamenti pubblici e le crescenti cause temerarie contro giornalisti indipendenti mettono in discussione l’autonomia della stampa, pilastro essenziale di qualsiasi ordine fondato sulla separazione dei poteri. Eppure, anche qui, si tace.
L’Europa annuncia che nelle prossime settimane pubblicherà un nuovo Rule of Law Report. Tuttavia, non è un rapporto a salvare le libertà: lo è una cultura pubblica che sa difenderle. Ed è proprio questa che oggi manca in Italia. La sensibilità per la limitazione del potere si è affievolita, e con essa la consapevolezza che i diritti si garantiscono solo quando nessuno può toglierli.
Il vero pericolo non è il potere che esercita l’autorità, ma quello che si libera di ogni limite. Non è lo Stato che applica le regole, ma quello che le scrive per sé. Non è il potere che garantisce l’ordine, ma quello che lo invoca per rafforzarsi. E quando i cittadini smettono di chiedere confini certi, lo Stato smette di rispettarli.
Ciò che va rimesso al centro è pertanto il principio di proporzionalità, il rispetto delle sfere individuali, l’idea che le istituzioni esistono per proteggere le persone, non per dominarle. Ogni ordinamento che voglia dirsi civile dovrebbe riconoscere come obiettivo non la disciplina dei comportamenti, ma la garanzia delle scelte. E ogni governo davvero legittimo dovrebbe misurarsi sulla sua capacità di rinunciare a intervenire, non sulla pretesa di disciplinare tutto.
Ma c’è un punto ancora più cruciale, troppo spesso trascurato: la certezza del diritto. Non la certezza dell’intervento, ma quella della previsione. Le persone non hanno bisogno di regole numerose, ma di regole stabili. Il diritto, per servire la libertà, deve essere affidabile nel tempo. Deve consentire a ciascuno di orientare le proprie azioni con fiducia, sapendo che ciò che è lecito oggi non sarà arbitrariamente vietato domani. Che un contratto sarà valido anche tra un anno, che un progetto potrà essere portato a termine senza essere travolto da una nuova norma retroattiva, che una proprietà non sarà svalutata da un’improvvisa decisione politica.
Non basta che le leggi siano scritte e approvate secondo forma: occorre che siano prevedibili, generali, coerenti. È la variabilità normativa — alimentata da una legislazione ipertrofica, contingente, spesso scritta sull’onda dell’urgenza — a minacciare più profondamente la libertà delle persone. Perché non si può essere liberi se non si può sapere. Non si può intraprendere, investire, progettare, vivere, se il quadro di riferimento cambia continuamente, per mano di un potere che pretende di rispondere a tutto ma non rende conto di nulla.
Chi difende l’autonomia dell’individuo non si affida a proclami o identità collettive, ma esige garanzie strutturali: leggi poche ma certe, poteri pubblici vincolati, responsabilità distribuite, istituzioni sobrie. Dove manca questa architettura, resta solo l’arbitrio, anche se ammantato di legalità. E dove c’è arbitrio, c’è sempre una libertà sotto minaccia.
Chi vuole davvero difendere la libertà, oggi, non deve gridare allo scandalo ma pretendere l’essenziale: che il potere non sia onnipotente, che la legge non sia mutevole, che la vita delle persone non sia materia disponibile per l’ingegneria politica. E che nessuna emergenza — sanitaria, climatica o economica — possa mai giustificare l’abbandono della certezza, della misura e della responsabilità.
