Il nuovo Papa e il ranking dell’amore
Istituzioni ed economia

L’elezione inaspettata, ma non così imprevedibile, come testimoniavano i rumors, del cardinale Robert Francis Prevost a nuovo Pontefice è stata quasi subito salutata da alcuni come un sottile statement antitrumpiano. Lo ha acutamente notato, ad esempio, Augusto Minzolini: Prevost è americano come Wojtyla era “sovietico”. Gli Usa di Trump si devono preoccupare, come si dovettero preoccupare la Russia di Breznev e la Polonia di Jaruzelski.
In un conclave composto, per quattro quinti, da cardinali nominati da Bergoglio, dove era chiaro che non esisteva una maggioranza anti-bergogliana, il quesito era quale sarebbe stato il bergogliano – e con quali caratteristiche – a prendere il testimone di Francesco.
Alla fine la scelta è caduta su un agostiniano di freschissima nomina cardinalizia (2023), di vasta esperienza sudamericana e – come gli altri nomi che erano stati fatti, a partire da Parolin – sulla carta capace di tenere la Chiesa unita sul percorso bergogliano, con meno strappi, meno fughe in avanti pastorali e più attenzione e comprensione per i travagli, gli equilibri e magari anche i riflessi condizionati della vecchia Chiesa euro-americana.
Pur non confidando religiosamente sull’intervento dello Spirito Santo, si può convenire laicamente che questa scelta è stata pensata in una logica – continuità nell’unità – necessaria per non rinnegare il magistero di Francesco, ma anche per non rischiare di lacerare la coesione dell’organizzazione ecclesiastica, messa a dura prova da un pontificato personalistico e, in senso istituzionale e non solo comunicativo, decisamente leaderistico.
La Chiesa ha più di duemila anni, una notevole esperienza del potere mondano e delle speranze ultramondane, ed è sempre bene non pensare che le sue decisioni possano essere dettate da una rapsodica ispirazione, anziché da un’analisi molto concreta e spesso anche cinica degli interessi del popolo di Dio.
Per chi pensasse di ascrivere l’elezione di Leone XIV – il nome: altra traccia sia di apertura, sia di moderazione – ai meriti di Trump non occorre ricostruire la carriera di questo americano di sangue misto; basta pensare cosa scriveva pochi mesi fa su X, quando rispondeva al cattolico DJ Vance, rilanciando un articolo del National Catholic Reporter, che l’amore cristiano non è "confinato alle linee di sangue o ai confini geografici” e non fa preferenze per i vicini e i lontani, a differenza di quel che pensano i nazionalisti americani e di tutto il mondo, per i quali il criterio della prossimità non è universalistico, ma discriminatorio. Insomma: non c’è un ranking dell’amore.
A differenza di molti commentatori non sappiamo quasi nulla della Chiesa e del cardinale Prevost, diventato Papa, se non quello che si è potuto leggere negli ultimi giorni sui giornali e neppure facciamo finta di saperlo. Ma che lo si scopra da prima impegnato a evitare che i nazionalisti degradino la religione cattolica ad alibi o passepartout ideologico è una conferma che Leone XIV sarà presumibilmente un Papa indisponibile a diventare il cappellano del sovranismo dell’ex Primo Mondo e che difenderà l’universalismo cattolico. Cosa preziosa per chi pensa laicamente che l’universalismo dei diritti e della democrazia liberale ne sia uno dei prodotti, magari involontari, ma più preziosi e importanti, oggi da difendere con le unghie e coi denti.
