La Festa dei lavoratori. Note (in dissenso) a margine
Istituzioni ed economia

In Italia le idee prevalenti nel senso comune sui rapporti di lavoro sembrano ancora derivare da una concezione (spesso inconsapevole) marxiana dell’economia, per cui il valore dei beni prodotti è equivalente alla quantità di lavoro impiegato a produrli. Ne consegue che il “profitto” - o “plusvalore” in lingua marxiana - dell’impresa è per definizione una quota di valore illegittimamente sottratta dall’impresa ai lavoratori, a cui viene concessa solo la quota minima possibile (il salario) grazie all’asimmetrico potere negoziale tra le due parti, sbilanciato a favore del datore di lavoro.
Questa concezione è falsa: il valore della produzione non dipende dalla quantità di lavoro impiegato, ma dal mercato, e cioè dalla dinamica della domanda e offerta che determina il prezzo dei beni e servizi, in base alla loro utilità marginale: la vecchia battuta per cui è difficile arricchirsi vendendo giacconi da montagna in piena estate o condizionatori in pieno inverno in montagna.
Il valore economico non è determinato dalla quantità di lavoro impiegata nella produzione, ma se mai dall’innovazione nel risolvere problemi e soddisfare sempre nuovi bisogni emergenti. Il profitto sul lungo termine è la misura della generazione di nuovo valore grazie all’innovazione scientifica e tecnologica: si è passati così dalla zappa al trattore; dai rimedi alle biotecnologie; dalle tavolette di argilla agli smartphone e all’IA. Per questo il valore viene generato dalle idee e capacità degli imprenditori - con l’aiuto dei loro collaboratori - e può crescere anche a parità di risorse.
Nuovo valore generato equivale a più risorse da distribuire a chi contribuisce a produrlo, quanto più è determinante nella sua produzione: per questo si dice che l’unico modo per far aumentare i salari reali è aumentare la produttività. Le competenze più utili sono anche quelle ad alto valore aggiunto: in aree ad alta produttività, la concorrenza sulla domanda ne fa salire il prezzo, e a cascata spingerà al rialzo i salari lungo tutta la catena del valore aggiunto delle mansioni e competenze: nell’economia della Silicon Valley chi domanda domestici e giardinieri sarà disposto a pagare di più.
I salari sono prezzi, e dunque anche il mercato del lavoro è governato, in linea generale, dalla legge della domanda e dell’offerta. Il punto di incontro tra domanda e offerta rappresenta il prezzo massimo che le imprese (domanda) sono spontaneamente disposte a offrire per una competenza e il minimo che i collaboratori (offerta) sono disposti ad accettare. Al di sopra di questo prezzo di equilibrio il costo del lavoro è fuori mercato per i datori di lavoro: l’alternativa è il non lavoro, o il lavoro nero (per ridurre i costi) o i sussidi a carico della collettività. Al di sotto del prezzo di equilibrio vi sarà penuria di personale, perché le competenze tenderanno a muoversi altrove nelle aree a più alta produttività, dove sono più remunerate.
Negare queste dinamiche produce effetti economici e sociali negativi: disoccupazione, sospetto e sfiducia nei rapporti di lavoro, oltre che comportamenti sindacali controproducenti e dannosi per gli stessi lavoratori. Eppure, molte delle azioni a "tutela del lavoro" sono motivate dal rifiuto ideologico di queste considerazioni, in favore della teoria del lavoro=sfruttamento.
In Italia è molto diffuso un fraintendimento di fondo quando si parla di “cuneo fiscale”, a carico dell’impresa o del lavoratore. Anche questo è forse un riflesso condizionato ideologico, frutto del senso comune marxista di cui tutti quanti siamo più o meno imbevuti. Il “cuneo fiscale” è una figura contabile utile ai funzionari del ministero dell’Economia per determinare il prelievo sui redditi, ma ciò che esiste nella realtà economica e produttiva sono solo due "prezzi" osservabili: il costo del lavoro e il salario netto.
Per un’impresa che sostiene 60.000 euro di costi all’anno per un collaboratore, non cambia nulla se tale somma finisce in tasca interamente all’interessato o se questo ne percepisca effettivamente meno della metà e il resto vada allo Stato. Nel conto economico è un costo fisso. Per contro: a un dipendente non interessa il salario lordo o il costo del lavoro, ma quanto gli viene trasferito su conto corrente a fine mese. Il cuneo fiscale viene inoltre “mascherato” dal sostituto di imposta, il meccanismo per cui le imprese versano le imposte per costo dei dipendenti, il che tende a nascondere il prelievo pubblico dei redditi alla percezione della transazione tra le parti, e alimentare tensioni e un senso di reciproco trattamento ingiusto.
Il costo del lavoro è spesso allo stesso tempo percepito come eccessivo o “fuori mercato” per le imprese a fronte di salari netti insoddisfacenti, troppo bassi e incompatibili con il costo della vita nella prospettiva dei collaboratori. Implicitamente, la costruzione contabile del cuneo fiscale alimenta così anche la narrazione della “lotta di classe” tra datori di lavoro e dipendenti.
Affrontare questo tema non significa certo scadere in un ridicolo populismo libertario, e negare l’ovvia necessità di tasse e pensioni per finanziare lo Stato e la stabilità sociale. Occorre però comprendere quanto la quota di reddito destinata allo Stato, in un Paese dove rappresenta anche il 100% del salario netto, impatti sul mercato del lavoro, producendo distorsioni tra domanda e offerta e compromettendo l’allocazione efficiente di risorse e competenze. Oltre a pesare sulla produttività generale, l’effetto del prelievo pubblico sui redditi appare tanto più iniquo se si pensa all’uso che se ne fa, per finanziare uno Stato inefficiente se non fallimentare nel garantire servizi pubblici essenziali, di giustizia, sicurezza, istruzione, pubblica amministrazione e burocrazia spesso assurde, e sussidiare rendite di posizione in varia forma e di varia entità.
Da ultimo la Festa dei lavoratori è spesso connotata come festa dei diritti del lavoro, con il corollario che sia "dipendente". Come se gli imprenditori non fossero lavoratori, o fossero comunque per definizione “presunti colpevoli” di sfruttamento o generazione di diseguaglianze. Anche qui forse, più che “festa dei lavoratori” dovrebbe essere ridefinita celebrazione di un rito quasi religioso della dottrina marxista del lavoro. Ma ci si stufa alla lunga di prendere sul serio, o fare buon viso al cattivo gioco di questi anacronistici e odiosi (per le divisioni che alimentano) ma soprattutto falsi armamentari ideologici.
