Una soluzione per l’Africa. La proposta di Kako Nubukpo
Istituzioni ed economia

Nel 1967 Papa Paolo VI, nella sua enciclica “Populorum Progressio”, pronunciò la scioccante frase: “il popolo della fame oggi sfida il popolo dell’opulenza”. Seguirono la convenzione di Lomé del 1975 e di Cotonou del 2000. Questi accordi, tuttavia, non sono serviti all’Africa a svilupparsi.
L’economista Kako Nubukpo, preside della facoltà di Scienze economiche e gestione dell’università di Lomé e consulente dei governi francesi per l’Africa, attraverso le sue opere, cerca di tratteggiare le linee guida di una rinascita africana evitando di ripetere errori del passato come la diga INGA, nella Repubblica democratica del Congo, che ha causato 37mila sfollati, ha bruciato oltre 80 miliardi di dollari, obbligando la Banca mondiale nel 2016 a sospenderne i finanziamenti; una vera e propria cattedrale nel deserto. I lavori sono ripresi nel 2023, con il progetto INGA III ma ci sono parecchi punti non chiari.
Gli accordi post Covid di Samoa dovrebbero fornire un nuovo quadro giuridico per le relazioni dell’UE e dei paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico. L’esperienza del Covid spinge Nubukpo, insieme all’economista Thomas Piketty, a sostenere la necessità di un federalismo africano perché i piccoli stati-Nazione ereditati dalla colonizzazione non possono reggere il confronto con le potenze economiche e finanziarie mondiali. In questo contesto appare incerta la sorte del franco CFA che molti considerano un retaggio della dominazione francese, nonché la moneta delle élites della Françafrique. Dovrebbe essere sostituito, su impulso di Macron, da una nuova moneta l’Eco a partire dal 2027.
L’Africa ha investito solamente il 5% del suo PIL nella sua economia di fronte all’impatto del Covid; una risposta timida se paragonata al 20% del resto del mondo. Allo stesso tempo, sui 650 miliardi di dollari in diritti speciali di prelievo stanziati dal FMI ai 190 paesi membri per l’emergenza Covid, solamente il 5% è finito al Continente africano nonostante rappresenti il 17% della popolazione mondiale.
Un tale divario si spiega con il margine di manovra finanziario molto limitato dell’Africa ed è un indicatore della necessità di riconquistare la sua sovranità monetaria e di bilancio. Altro problema é la tendenza ad agire a livello macroeconomico sulla scia delle istituzioni economiche internazionali di Bretton Woods (FMI e Banca Mondiale), vale a dire privilegiando il dogma dell’austerità budgetaria a discapito di una forte azione anticiclica specie nei settori della salute, dell’istruzione e dell’agricoltura.
Di fatto le crisi, in particolare quella del Covid, hanno preparato il terreno affinché l’Africa ponesse un’enfasi senza precedenti sullo sviluppo umano, che è uno dei pilastri della trasformazione strutturale su cui si dibatte da oltre sessant’anni. Nubukpo riflette sugli strumenti finanziari che si possono utilizzare, in linea con i valori di solidarietà e di prossimità, con la finalità di trovare gli strumenti migliori per finanziare le economie africane. Partiamo dall’annoso problema del debito africano.
Perché i debiti continuano a ripresentarsi? Il FMI, la Banca Mondiale, il G20 e il presidente francese Macron hanno più volte annunciato una riduzione del debito mentre Papa Francesco, durante la benedizione pasquale urbi et orbi del 2020, ne chiese la cancellazione. Cosa esprime questa bella unanimità? Perché i debiti africani sono ricorrenti nel dibattito internazionale come esempio della compassione del resto del mondo per l’Africa? Il mondo, dopo la Seconda guerra mondiale, si è costruito sull’idea che i paesi ricchi dovessero aiutare i paesi poveri seguendo lo schema tracciato dal piano Marshall che permise all’Europa di finanziare la sua ricostruzione.
L’Africa ha goduto, a dire il vero, di una serie di aiuti; il piano Brady, il piano Baker fino alla cancellazione, nel 2000, del debito dei paesi più poveri (Burkina Faso, Benin, Camerun, Repubblica democratica del Congo, Somalia, Ghana, Mali, Mauritania…). La logica, tuttavia, era implacabile: affinché l’Africa potesse essere un vero partner commerciale, in altre parole affinché potesse acquistare beni e servizi provenienti dal resto del mondo, occorreva che potesse disporre di margini di manovra di bilancio e di risorse private sufficienti, la famosa capacità di assorbimento. Ma per garantire questa capacità di assorbimento occorreva ricorrere frequentemente alla cancellazione del debito.
Quali sono quindi le cause della crisi? Per Nubukpo il primo fattore che spiega l’indebitamento africano ricorrente è il tasso di pressione fiscale troppo basso, 20% in media sul PIL, contro il 40% dei paesi sviluppati. Le risorse fiscali sono necessarie per finanziare la spesa pubblica, gli investimenti e rendere sostenibile il debito. Si è scommesso sulla diminuzione del peso dello Stato quando tutti i Paesi oggi ricchi lo sono grazie alla costruzione di uno Stato fiscale e sociale capace non solo di organizzare, di regolare gli scambi economici, di tenere un registro delle proprietà, di impiantare un minimo di giustizia fiscale e sociale, ma anche di investire nelle infrastrutture, nell’istruzione e nella sanità.
Il secondo fattore di sovraindebitamento è il livello strutturalmente elevato dei tassi di interesse reali in Africa che spesso sono superiori, anche del doppio, del tasso di crescita economica. Il terzo fattore di crisi -il più strutturale- è la ristrettezza della base produttiva africana. L’Africa deve cominciare a produrre ciò che consuma attraverso la creazione di industrie di trasformazione. L’Africa è essenzialmente esportatrice di materie prime, i cui prezzi sono volatili e più bassi dei beni e dei servizi che importa massicciamente per fronteggiare la forte domanda sociale. Senza parlare della corruzione delle classi dirigenti tollerata dalla comunità internazionale.
Questi fattori determinano il ripetersi di situazioni di crisi con il paradosso che i debiti cancellati hanno aiutato pochissimo l’Africa. Di conseguenza la cancellazione del debito senza riforme strutturali è solamente un palliativo.
Nubukpo considera primaria la riorganizzazione del settore agricolo. Non ha senso fabbricare polli in Francia per esportarli in Senegal o latte in polvere nei Paesi Bassi per esportarlo in Togo. Bisognerebbe al contrario incoraggiare e proteggere le produzioni locali e creare posti di lavoro. Una riforma fondiaria che superi il diritto consuetudinario e si ispiri al diritto moderno è quanto mai necessaria.
La sicurezza fondiaria è un problema centrale di tutte le politiche pubbliche. Merce divenuta rara, la terra è al centro di tutti i desideri. Non passa giorno nelle capitali africane senza che esploda un conflitto fondiario. E nessuna famiglia africana è risparmiata da dispute fondiarie legate ad eredità controverse, alla vendita pubblica dei terreni o alla confisca dello Stato dei terreni privati. Il territorio africano è caratterizzato da differenti modalità di accesso e di uso, legate a sistemi di diritto locale, spesso orali e informali. In Africa si constata un’esclusione finanziaria molto forte perché le persone non hanno titoli di proprietà. Favorirne l’incremento può facilitare l’accesso ad un credito più endogeno
Proteggere la biodiversità: per i paesi africani e in particolare per i paesi membri dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (UEMOA) la gestione delle risorse naturali costituisce il motore di sviluppo sociale ed economico. Tra queste risorse l’acqua, il suolo, la foresta e la fauna costituiscono il principale patrimonio nelle mani delle popolazioni rurali. Molti stati, specie quelli situati nella regione del Sahel, presentano un ecosistema fragile ed un’economia agricola i cui rendimenti dipendono dalle piogge e dalla qualità delle risorse naturali.
In un contesto di non facile accesso ad adeguati mezzi di produzione (irrigazione, credito, assicurazione, sviluppo del territorio, uso di adeguati fertilizzanti, assenza di adeguati silos e assenza di maggese) e di povertà contadina, la vulnerabilità economica e sociale è grande di fronte al degrado delle risorse naturali e ai cambiamenti climatici. La povertà, accompagnata da una crescita demografica incontrollata, non fa che aggravare, anno dopo anno, il sovrasfruttamento e il conseguente impoverimento delle terre. A questo fenomeno si aggiunge la distruzione delle foreste per approvvigionare i villaggi di legna e dare foraggio agli animali.
Il destino dell’Africa si gioca sul rispetto della biodiversità e sulla lotta al cambiamento climatico per vincere l’insicurezza alimentare. L’Africa paga anni di abbandono strutturale che hanno indotto le popolazioni agricole a migrare verso le savane e le foreste causando conflitti e squilibri ecologici. In Africa la povertà è soprattutto contadina.
Il numero di persone in situazione di denutrizione cronica o di carenze alimentari e vitaminiche avanzate resta in Africa il più alto del mondo, e gli apporti energetici e nutrizionali sono, in media, tra i più deboli, con forti disparità tra i paesi. Il livello di sicurezza alimentare è debole a causa di fattori essenzialmente legati all’accesso, alla qualità e alla stabilità dell’alimentazione oltre che alla sua disponibilità.
L’agricoltura, principale occupazione della popolazione, si trova ad affrontare sfide a causa della bassa produttività sia del lavoro che della terra, della vulnerabilità climatica che esacerba la dipendenza dalle importazioni. La crescita demografica del continente, che secondo le previsioni si svilupperà con un moltiplicatore fino a quattro, porterà, specialmente nell’Africa subsahariana, ad una forte domanda di prodotti agricoli, sollevando grandi questioni sul fabbisogno nutrizionale, sull’aumento della resa agricola delle superfici coltivate, sull’estensione delle aree destinate a pastorizia, sullo sfruttamento delle foreste con conseguente sostenibilità ambientale.
Secondo le stime dell’Onu, la popolazione mondiale, partendo dal 2010 come anno di riferimento, passerà da 6.8 miliardi a circa 9.5 miliardi nel 2050. La popolazione africana, nello stesso periodo passerà da meno di un miliardo d’abitanti a 2.5 miliardi.
Questa crescita demografica avrà forti conseguenze sul fabbisogno alimentare del continente africano; secondo Nubukpo serviranno 500 milioni di ettari di terra supplementari per coprire i fabbisogni alimentari; inoltre, il conflitto tra agricoltori ed allevatori sull’uso delle terre rischia di tradursi in una pressione crescente per lo sfruttamento della terra e dell’acqua con forte rischio di deforestazione.
Lo studio di Nubukpo mostra che le efficienze animali dei ruminanti (carne e latte) sono particolarmente deboli in Africa, che si traduce in un maggior bisogno di foraggio rispetto ad altre zone del mondo a parità di rendimento. Questo fattore va inoltre combinato con la debole progressione del rendimento dell’erba e la conseguente necessità di maggiori superfici per il pascolo.
Vi è dunque urgenza di migliorare la resa dei terreni attraverso un’intensificazione ecologica dei sistemi di coltura attraverso l’uso di tecniche di miglioramento genetico che includano l’editing genomico e le tecnologie di evoluzione assistita (TEA) per ottenere colture più produttive, resistenti ed adatte alle esigenze dei consumatori. Andrà razionato inoltre il consumo di carne in quanto i ruminanti sono molto più energivori dei monogastrici (i polli). Il miglioramento della gestione dei settori agricoli prioritari, il rafforzamento dei sistemi di produzione agricola, la creazione di posti di lavoro dignitosi per i giovani nelle zone rurali dovrebbero costituire l’agenda per la salvaguardia di un’agricoltura sostenibile per il continente africano.
L’aumento e il miglioramento qualitativo della produzione creerebbe un circolo virtuoso: arrivo di investitori privati, sviluppo dell’industria agro-alimentare con creazione di valore aggiunto, inserimento nell’economia internazionale e creazione di lavoro e di ricchezza. La pace e la stabilità del continente, l’eliminazione della fame e della miseria, l’accesso ai diritti di proprietà, la protezione e il lavoro, la sostenibilità e la resilienza, non dovrebbero essere obiettivi comuni? È fondamentale inoltre garantire, in un primo tempo, la protezione commerciale necessaria alle produzioni contadine africane per permettere ai contadini di vivere degnamente del proprio lavoro, garantendo ai più poveri l’accesso ad un’alimentazione abbordabile. Nell’attuale situazione di emergenza questo percorso dovrebbe raccogliere un largo sostegno della comunità internazionale.
Altrimenti i due obiettivi dell’ONU per il 2030 (basta povertà e fame zero) sono destinati a restare lettera morta. Risuonano le parole di Papa Benedetto XVI che, nella giornata mondiale del migrante e del rifugiato nel 2013, affermò che prima ancora che il diritto ad emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè ad essere in condizione di rimanere nella propria terra, ripetendo con Papa Giovanni Paolo II che «diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione» (Discorso al IV Congresso mondiale delle Migrazioni, 1998). Oggi, infatti, vediamo che molte migrazioni sono conseguenza di precarietà economica, di mancanza dei beni essenziali, di calamità naturali, di guerre e disordini sociali.
Invece di un pellegrinaggio animato dalla fiducia, dalla fede e dalla speranza - si legge nel messaggio di Benedetto XVI - migrare diventa allora un «calvario» per la sopravvivenza, dove uomini e donne appaiono più vittime che autori e responsabili della loro vicenda migratoria.
