Lezioni americane, la frustrazione pesa più della paura
Istituzioni ed economia
A un mese dalle elezioni americane, possiamo dire di poter trarre delle lezioni paradigmatiche necessarie al fare politica e, quindi, anche alla ricerca di consenso. Ovviamente si tratta di schemi non pienamente replicabili, ma utili a dare quadri di insieme, con tutte le distinzioni del caso riguardanti differenti tessuti sociali e componenti delle società, perlomeno per quel che riguarda le democrazie occidentali.
Al fine di comprendere almeno in parte il voto americano, bisogna quindi cominciare ad analizzarlo scomponendo i vari segmenti che lo formano. Se l’elettore mediano di Trump è sostanzialmente un Wasp, un maschio bianco di origine anglosassone e religione protestante, possiamo notare che il parametro più rilevante a livello di minimo comune denominatore, raggruppante cioè frange elettorali numericamente consistenti, è la differenza tra il voto dei grandi centri urbani contrapposto a quello delle zone periferiche e rurali.
Mentre la percentuale di voto nei centri è stata 63% per Harris contro il 35% a Trump, nelle aree suburbane il risultato è stato esattamente opposto, con il tycoon che ha raccolto il 63% contro il 36% della vicepresidente uscente. Ci troviamo quindi di fronte alla frattura - per riprendere la teoria delle "cleavages" sociali del politologo Rokkan - città/campagna, che sta caratterizzando tutte le elezioni dei paesi democratici ormai da un quindicennio, qui nella sua veste americana.
Dalla Brexit alle ultime europee, dalle politiche italiane al voto statunitense, il tema dominante pare essere l’opposizione tra il voto delle città, a maggioranza verso una sinistra internazionalmente intesa, e il voto delle campagne/periferie, spostatosi sempre più a destra, premiando spesso compagini sovraniste ed estreme. Un esempio della dinamica Usa può essere tratto guardando a tre Stati: Michigan, Wisconsin e Illinois, tutti adiacenti e affacciati sul lago Michigan.
Harris vince largamente in Illinois, dove c'è una grande metropoli, Chicago, ma perde negli altri due stati. Oppure, spostandosi nel Texas larghissimamente repubblicano e trumpista, nell'area metropolitana di Dallas Harris trionfa con il 69%. Nelle aree rurali e suburbane, vasti strati della cittadinanza si sentono tagliati fuori dai meccanismi di generazione della ricchezza, che si sviluppa nelle aree metropolitane, dove generalmente crescono innovazione e creazione di valore aggiunto: su questa differenza tra aree urbane e suburbane si sono giocate le elezioni.
Nasce un risentimento, che si scaglia contro vere o presunte élites politiche, economiche e finanziarie urbane, che hanno o avrebbero tra le mani la gestione del potere. Il voto a Trump è proprio un voto distruttivo verso queste minoranze decisorie, che emerge dove la rabbia per l'esclusione dai meccanismi di creazione di nuovo reddito prende forma. Tornando al sopracitato Rokkan, secondo i suoi studi degli anni '60 sulle fratture sociali (le cui analisi riguardavano però l’Europa), l'arena politica può essere racchiusa all’interno di quattro grandi cleaveges, ovvero opposizioni stabili e profonde del corpo elettorale su tematiche specifiche. Queste fratture esistono sempre, ma alcune sono prevalenti in determinati periodi. La teoria ci dice anche, in maniera puntuale, quali provvedimenti verranno promossi nel momento in cui una determinata frattura si impone: politiche protezioniste per il contrasto centro/campagna, politiche redistributive con la frattura operai/datori di lavoro.
Il tema è decisivo, poiché si tratta anche, non a caso, delle due politiche economiche che dominano lo spettro politico oggi: protezionismo per la destra che trionfa nelle periferie, redistribuzione della ricchezza per la sinistra vincitrice nei centri urbani. Con ridotte possibilità e capacità lavorative, la campagna è portatrice non tanto di valori antitetici, ma di istanze economiche contrapposte a quelle della città, ovvero protezionismo e difesa occupazionale. Sono bisogni e stili di vita a cambiare in maniera netta.
Se, per citare Francis Fukuyama, il Partito Democratico americano diventa il partito dei più istruiti che vivono nei grandi centri urbani, perdendo il collante con parte delle classi lavoratrici a più basso reddito, è in ogni caso necessario sottolineare che il livello di istruzione e formazione, così come il ruolo professionale e sociale ricoperto nella comunità di appartenenza, non determinano la bontà di una scelta politica a prescindere - questo al fine di evitare semplificazioni eccessive.
Un altro fattore di crisi strutturale, poco menzionato nei dibattiti pubblici ma in realtà fondamentale, è quello del tasso di crescita della produttività. La mancata risposta ai bisogni di protezione sociale di tanti segmenti dell'opinione pubblica è causata pure da questo limite, che stimola soprattutto la reazione delle fasce con maggiori problemi individuali e sociali, i quali votano di conseguenza per forze politiche che più di altre costruiscono disegni illusori, ovvero quelle demagogiche, senza reali risposte e soluzioni percorribili.
Il voto di protesta (di destra, ma lo stesso ragionamento vale, specularmente, per quello di sinistra integralista) è destinato a un nulla di fatto fallimentare, perché basato su politiche pubbliche totalmente incapaci di affrontare, appunto, i problemi più strutturali. Trump non è un esponente della cultura repubblicana tradizionale, venendo anzi giudicato per lunghi periodi impresentabile dagli stessi che l'hanno poi sostenuto.
La sua vittoria nel voto popolare con una affluenza molto alta è stata, in ogni caso, un segnale forte: sicuramente, segno che la cultura di sinistra integralista woke nutre le fila della destra, ma questa non può essere una novità. Il gotha wokista del politicamente corretto (e, in qualche misura, pure del laicismo ideologico, che non è laicità, e della secolarizzazione a tutti i costi) troppo spesso professa, inoltre, un appiattimento su posizioni di politica estera da slogan, alla propal radicale antisemita, oltre che su un filoputinismo autoriale di fondo.
Se la risposta continuerà ad essere l'accentuarsi di una polarizzazione condottiera di una rinnovata radicalizzazione di alcune sinistre, ciò porterà a un rafforzamento delle destre. La sinistra woke non può vincere, perché basa i propri presupposti su endofobia e demonizzazione delle maggioranze. D’altra parte, le (centro)sinistre o i centrismi pragmatici e intelligenti che sapranno sfruttare i disastri sovranisti della società chiusa per imporsi con soluzioni di mercato e politica economica per la più ampia fetta di tessuto sociale (e non solo con un occhio di riguardo alla tutela delle minoranze) potranno guadagnare molto.
Lo spirito del tempo attuale è composto non tanto dal recupero di radici del passato, quanto di utopismo ripristinatore di soluzioni di uno ieri ormai fuori dalla storia (sovranismo variamente declinato, isolazionismo), incompatibile con le sfide del presente, con scarsa volontà (o forte timore) di affrontare il domani.
La speranza è che la necessità della storicizzazione del contesto, nell'inevitabilità dello sbattere addosso ai vincoli di realtà, possano essere più forti dell'ideologia del folklore facilitatore. I processi culturali del mondo progressista americano non istituzionalizzato (poco importa che Kamala Harris ne abbia preso le distanze, se le possibilità di svilupparsi sono state così durature e tentacolari) e l'evoluzione della sinistra americana in un concentrato essenziale su diritti LGBT+ e politicamente corretto non riescono, non possono intercettare i bisogni.
Il massiccio voto trumpiano non può dunque essere ridotto a solo e puro delirio emozionale: conta portare risultati alle persone, come pesa altrettanto la percezione di quei risultati. I due fattori, presi singolarmente, non sono sufficienti. Se c'è una difficoltà di comunicazione, è perché - spesso - esiste anche un problema politico alla base. Trump riesce a incarnare un certo tipo di atteggiamento, nei confronti del mondo e della politica: lo traduce, e molti si riconoscono, perché non c'è artificio – o, almeno, non si vede – nel suo presentarsi privo di inibizioni. I proclami di superiorità morale o intellettuale rispetto al Trump di turno sono inutili o dannosi, condannando il wokeism alla sconfitta perpetua.
Il voto dei più deboli, dei fragili e di tutti coloro che soffrono la paura del futuro va interpretato e canalizzato: gli Usa sono la dimostrazione plastica che inflazione, costo della vita e paura di perdere il lavoro sono certezze che contano, non temi secondari o decorazioni. Quel disagio, quel sentimento di insicurezza proprio pure della classe media con meno difficoltà porta al voto per leader populisti. Non solo. Alla lunga, il fenomeno conduce di frequente a perdere anche l'appoggio delle stesse minoranze, o almeno, di certe minoranze.
In questo senso, il posizionamento degli arabi musulmani, più ancora di latinos e asiatici, è emblematico: se non possono essersi rivelati in buona parte a favore di Trump per la sua postura effettiva - The Donald non ha mancato di usare la parola "palestinese" come insulto, facendo della norma muslim ban della prima presidenza un simbolo della sua linea - significa che c'è dell'altro. Sicuramente, va calcolata l’intenzione di punire l’amministrazione Biden per l'anno di Gaza.
L'allontanamento dai dem è però più radicato, partendo molto prima del post 7 ottobre, fondato com'è proprio sull'abdicazione della sinistra americana rispetto al suo ruolo originario e sulla trasformazione completa su diritti e politicamente corretto, che hanno portato i musulmani a maggiori simpatie verso i repubblicani. Ciò non significa che non bisogna tutelare minoranze e parlare di diritti, ma l'automatismo associativo all'establishment con conseguente avversione dovrebbero presentare un monito a una simile impostazione, nella necessità di contrastare il principio MAGA in maniera più seria e concreta, con più conoscenza del mondo.
Promuovere decrescita e deindustrializzazione, che coincidono con recessione economica e impoverimento dei più poveri (poco importa, ancora, che Kamala Harris non avesse niente del genere nel suo programma), la perenne incertezza sulla politica estera (Ucraina, Israele), un femminismo eccessivamente formale e poco sostanziale, nella sua volontà di rappresentare davvero le donne, hanno addirittura la capacità di far trionfare un condannato che ha avallato un tentativo di colpo di Stato, che è in politica principalmente per tutela e autoconservazione individuale, e che in campagna elettorale è arrivato a promettere deportazioni di massa per immigrati accusati di cibarsi di cani e gatti.
Le persone giungono a pensare che il peggio potrebbe essere migliore del non irresistibile, entrando in una spirale storico-politica da sempre disastrosa: come a dire, io intanto ti punisco, mondo democratico, sostenendo nientemeno ciò che è ancora più distante da me.
Se poi cogliamo anche l'importanza di un sistema mediatico e informativo che non aiuta e anzi confonde, ecco che ad ogni elemento è assegnato il proprio ruolo. Riassumendo, i fattori di scelta sono sia strutturali che contingenti - su tutti, l'inflazione, nel caso americano ma non solo statunitense. I più importanti sono quelli strutturali, che riguardano la differenza delle condizioni di vita degli abitanti, i quali votano in modo opposto e sempre più estremo.
Trump ha preso tre milioni di voti in più del 2020, Harris sette milioni di voti in meno di Biden nel 2020: ripartiamo, anzitutto, da qui, oltre la pietra tombale del wokismo. Il prossimo decennio sarà democraticamente, economicamente e internazionalmente difficile, e forse si amplierà nella sua durata. Quel che è certo è che le sole battaglie sui diritti non potranno bastare, se non si parla di lavoro e sicurezza ai ceti medi vincerà la paura, se non si predispongono traiettorie di futuro arriverà il passato con le sue distorsioni e implicazioni distruttive.