“Now is the winter of our discontent made glorious summer by this sun of York; and all the clouds that lour’d upon our house in the deep bosom of the ocean buried. Now are our brows bound with victorious wreaths” (Riccardo III - William Shakespeare)

In un festoso contento pare che i giornalisti, i politici, i commentatori politici (categoria di cui fa parte, professionalmente o meno, gran parte degli italiani) di tutta Italia stiano salendo giubilanti sull’ennesimo carro di un altro vincitore (forse per abbandonarlo tra poco con altrettanta lesta furia). Ora, la politica tutta, chi dopo aver affannosamente riottenuto una “poltrona”, chi contento di aver dismesso un nocchiere cieco, si rilassa lasciva, chi accomodandosi su consenso facilmente ottenibile su speculazioni populiste a rischio (quasi) zero, chi crogiolandosi disteso per un risultato “assicurato” per cui non vale sforzarsi oltre. “But I” dicono alcuni, accecati dal rancore per la propria mediocrità, “I am determined to prove a villain and hate the idle pleasures of these days”, e, dunque, i più progressisti dei progressisti, dopo aver votato la fiducia all’ormai stella nascente della sinistra - che però era stato anche grande ideologo del sovranismo nostrano - ovvero al premier che ha firmato i decreti sicurezza, guardano e ripiccano con fare esigente e pignolo Draghi (non abbastanza progressista lui, “di destra”- orrore!- il governo).

Bisogna, al momento, considerare che il “mandato” di Draghi è limitato a compiti molto specifici. E per quanto Draghi sia pesantemente limitato anche per il raggiungimento degli stessi obiettivi del suo mandato - per la stessa impossibilità (o comunque difficoltà) di ottenerli in modo compiuto senza riforme impopolari - l’essenziale è presente: il Presidente del Consiglio ha ora chiaro, forse più di chiunque altro, quale sia la questione principale dei prossimi anni.

Il Draghi-pensiero era stato ben riassunto in articolo di Fubini sul Corriere del 15 dicembre 2020: il tema primario è permettere la sostenibilità del debito pubblico futuro, e, dunque, sull’utilizzo dei fondi di NGEU si deciderà il fallimento o la svolta (momentanea, almeno) del Paese. Draghi evidenziava come quanto più alto è il debito pregresso dei Paesi, tanta più attenzione deve essere posta al tasso di rendimenti dei progetti che si finanzieranno con il Recovery Fund.
Ciò ora è chiaro e questo è l’essenziale, ma considerato il contesto politico, quello del Presidente del Consiglio più che un “Whatever it takes” sarà un “Todo modo (para buscar la voluntad divina)”.

Tuttavia, anche se il rancoroso “But I” di SI e degli intellettuali italiani è illogico ed incoerente, se non risibile, esiste un “But I”, mosso da un giusto desiderio di rivalsa, di onesta rivendicazione di una diversità di opinioni, di lucida difformità rispetto a un narcotico entusiasmo, che dovrebbe essere proprio di tutta la politica che comprende la necessità di costruire qualcosa per il dopo-Draghi. Draghi (“within his mandate”) non potrà occuparsi, giustamente, di molti temi, temi che in ogni caso non dovranno essere abbandonati: il dibattito politico non dovrà limitarsi a un “tira e molla” populista ricattatorio da parte della Lega e del M5s sui provvedimenti del Governo, il Parlamento e i partiti devono essere consapevoli che in questo intervallo (in questo “time out”) ciò che necessariamente non potrà essere fatto da Draghi, può e deve essere portato per altre vie.

Forse non occorreva scomodare Shakespeare per descrivere, da una parte, la gioia collettiva per la “venuta” di Draghi e, dall’altra, il rancoroso astio delle querule vedove di Conte (le quali, anch’esse, possiamo ben supporre, si preparano a predisporre odiose trame). Il paragone che si è arrivati a fare tra l’affermazione (“But I”) del perfido Riccardo III e la necessità di risveglio della classe politica potrebbe sembrare bizzarro, inappropriato, offensivo, forse, ma c’è una questione che esso ci aiuta a disvelare.

Il Riccardo III è stato da alcuni descritto come la tragedia della provvidenza, della predestinazione, del contrasto tra predestinazione e libero arbitro (alcuni parlano di Machiavellismo). Riccardo III è certamente un personaggio negativo, ma è anche, in qualche modo, mesmerico. Potremmo forse dire che Riccardo rappresenta un urlo, un moto (forse vano) disperato contro il determinismo, contro la predestinazione divina. personaggio esemplificazione di un individualismo piccoso ed implacabile. In questo senso a noi, alla politica, è necessario il suo “But I”.

Non si può, probabilmente, dire se per inadeguatezza o meschinità della classe politica italiana, o per istinti più reconditi, ma la mentalità politica della politica italiana si riscopre sempre e nuovamente deterministica e storicistica. In una risibile fanfara trasformista, gli elogiatori irriducibili di Conte, i pasdaran del dopo Conte “le deluge”, diventano esaltati sostenitori di Draghi (se non pretesi suoi mentori). Ciò che è giusto viene indicato in modo epifanico dalla “storia”, o meglio dalla contingenza politica in cui ci si trova. E, dunque, un Draghi vale un Conte, se “scientificamente” ci viene manifestato così dai “tempi”. Tuttavia, manca qualsiasi tipo di iniziativa “personale”, qualsiasi tipo di volontario obiettivo politico.

Meccanicamente il Movimento 5 stelle, il Partito Democratico, ed anche altre componenti della maggioranza si incastrano (ciascuno con i propri interessi) non nel segno dell’azione, ma nel segno del veto reciproco di istanze altrui, rendendo la scena politica un asfissiante ingranaggio meccanico ove è possibile solo ciò che è stato determinato, dove non c’è posto per qualcosa di non “inquadrato”, di qualcosa di non integrato nel disegno prefigurato. Non sappiamo considerare se dietro al “disegno” della politica italiana vi sia effettivamente un meccanismo scientifico o una predestinazione divina, tuttavia il grido tragico dell’uomo intrappolato nell’orologio celeste, è un grido che può essere, allo stesso modo, proprio di chi vuole far valere sulla scena politica italiana la concezione di una politica esito delle scelte di tutti noi quali agenti politici. Per questo “But I” anche davanti non tanto a Draghi, o al governo Draghi, ma alla maggioranza Draghi. La questione prima deve essere cosa si vuole costruire e come agire per farlo, non come ci si pone davanti a ciò che “necessariamente” c’è o ci sarà.

Peraltro la astratta equivalenza di tutte le formule “imposte dalla storia” è smentita dai travagli interni al PD, con le dimissioni di Zingaretti e anche dalle divisioni del mondo grillino, con la semi-scissione di Casaleggio: due partiti che negano ma in qualche modo “sentono” che il cambio di Governo non è solo un cambio di formula, ma rimette in discussione contenuti, scelte e stili di fondo rispetto al recente passato. Proprio perché non è vero che non è cambiato nulla sono le forze politiche della maggioranza passata quelle più sfidate e nei fatti contraddette dall’azione e ancora di più dall’esistenza del nuovo Governo, che fino alla sua costituzione davano per impossibile o infausto.

Il quadro politico deve evitare di trovarsi nel post-Draghi, come si dice oggi, “back to square one” ovvero in una situazione simile al post-Monti che culmini (forse più rapidamente) in un altro “2018” (con delle elezioni al cui esito si ha una maggioranza parlamentare illiberale, se non eversiva). È vero che al momento stiamo assistendo ai terremoti di PD e M5S e alla parziale e posticcia “europeizzazione” della Lega, tuttavia, in qualche modo, la legislatura ancora in corso e il Conte bis hanno “corrotto” l’intero panorama politico italiano. Gran parte dei partiti italiani, infatti, al momento ha completamente perso un comune “alfabeto” liberale: se il Movimento 5 stelle e la Lega erano già partiti illiberali ed eversivi, anche il Partito Democratico, dopo l’esperienza del Conte bis, esce pericolosamente estraniato da basilari principi liberali, avendo ceduto su tutta l’agenda politica al Movimento 5 stelle. Di fatto, nella maggioranza di governo, non c’è quasi nessuno che parli la lingua del Presidente del Consiglio, che ne condivida davvero le convinzioni e i propositi e non si limiti ad accompagnarli fino a che – passata l’emergenza e la conseguente necessità di un governo così – tutto possa tornare come prima, al bipolarismo populisti versus sovranisti.

Si è spesso parlato a proposito di Movimento 5 stelle di “romanizzazione” dei barbari, altre volte è stato fatto il paragone con il PCI. In particolare, in relazione al M5s si è detto che si poteva porre il medesimo problema che si poneva Pannella a proposito del PCI: ovvero, riassumendo e semplificando, l’impossibilità che un partito con una parte così consistente di consensi venga totalmente escluso dalla amministrazione del “potere”, e dunque la necessità di integrarlo per permettere un’alternanza.
La ragione per cui il Pci veniva escluso dal potere era il suo legame con l’Urss che lo rendeva potenzialmente un partito eversivo, antisistema. L’obiettivo, dunque, poteva essere “romanizzare” il Pci per poterlo integrare e mettere fine all’anomalia italiana di un bipolarismo impossibile. Tuttavia, la situazione attuale con il M5s è esattamente opposta alla situazione di allora: il Movimento 5 stelle da partito eversivo, quale almeno ci sentiamo di considerarlo o, comunque, da movimento che si faceva (e si fa) portavoce di istanze antisistema e illiberali, è stato integrato, senza una previa “de-barbarizzazione” nel sistema. Anzi, il Movimento 5 stelle è stato punto cardine di due diverse maggioranze, elemento fondamentale della gestione del potere.

Dunque, cercare di perpetrare un’alleanza (che si può dire anche questa volta propriamente un’ “alleanza dei cretini”) è una strategia cieca da parte del PD, visto anche il calo di consensi che il Movimento sta vedendo e visto che il suo possibile recupero, con Conte leader, sarebbe tutto ai danni del PD: già Draghi ha creato un cordone di sanità attorno alle correnti più sovversive del Movimento, sarebbe più logico proseguire cercando una totale marginalizzazione del Movimento stesso, per poter far rientrare anche gli altri Partiti (della “sinistra democratica”) in un quadro comune liberale e democratico e, con essi, anche l’Italia. Tuttavia, questa non sembra una preoccupazione dei dirigenti dei partiti della “sinistra democratica” che, come perdutamente infatuati, continuano a cercare a tutti i costi un’alleanza di qualsiasi tipo con il Movimento, non preoccupandosi, invece, di vagliare possibilità concrete di poter creare un nuovo quadro che possa permettere un governo democratico nel post-Draghi.

Il Partito Democratico, ma con esso anche parte dei partiti che potremmo dire “liberali”, sono ora privi di quella che dovrebbe essere una caratteristica fondamentale della politica: la volontà. Forse in questo caso anche di volontà tragica. Questi partiti e molti politici non si sentono “agenti” politici, ma pigri rami inanimati trasportati dalla corrente. Per il PD Conte o Draghi pari sono, e di qualsiasi risultato e provvedimento ci si può e ci si deve vantare. I partiti non eversivi rischiano tutti di restare intrappolati in “una notte dove tutte le vacche sono grigie”, rimanendo sostanzialmente privi di una capacità di discernimento critico, imprigionati - forse nuovamente con Draghi come è stato con Conte - in una retorica infantile per cui tutto ciò che fa il governo che si sostiene (pur essendo un governo di coalizione) è assolutamente corretto ed è ciò che è assolutamente necessario. Si profila una classe politica incapace di distinguere “ciò che non siamo, ciò che non si vogliamo”, se non si sarà in grado, con un po’ di sano individualismo, di arrivare a rimuginare “But I”.

Come scriveva Alessandro Barbano su HuffingtonPost, il governo Draghi opera un’incredibile azione di marginalizzazione degli estremismi presenti in Parlamento ed è, dunque, un grandioso “assist liberale”, liberale, nel senso minimo della parola; senza, però, una consapevolezza del rischio che potrebbe tornare a minacciare le istituzioni democratiche, senza un giusto timore e, dunque, senza una volontà d’azione per il futuro, questo assist rischia di essere mancato clamorosamente.

Alcune cassandre fataliste (“l’Ordine dei padri weimeriani”) avevano anzitempo fatto un azzeccato paragone tra la condizione politica dell’Italia del 2018 (e pre 2018) e la Repubblica di Weimar. Il pericolo, ora, è ritrovarsi nel dopo-Draghi, prima delle elezioni, di nuovo a Weimar (back to square one). L’impegno primario deve essere ricostruire un alfabeto liberale comune della politica, questo per far sì che Draghi non sia uno Stresemann prima del disastro.