I due Matteo, l’ego-politica di due funamboli dell’emergenza
Istituzioni ed economia
Come altri autorevoli esponenti democratici Renzi sostiene che "è giusto fare un governo" perché "le istituzioni sono a rischio”. Ammesso che il rischio reale sia pari a quello percepito, facciamoci però una domanda semplice: perché le istituzioni sono a rischio? Questo è un interrogativo a cui vorrei rispondesse proprio Renzi. Cosa è successo in questi anni perché si determinasse la pericolosa esposizione al rischio di cui si parla? Chi ha la responsabilità dello scollamento tra elettori e istituzioni?
Chi ha solleticato gli umori peggiori degli elettori con dosi massicce di populismo e demagogia? E chi ha sdoganato scostanza ed arroganza come metodo sistematico di comunicazione politica? Chiariamo una cosa: non sono così fazioso da pensare che Renzi sia stato il solo responsabile di quello che scrivo, ma non da oggi lo reputo senz’altro, in parte, significativamente responsabile.
Vero che adesso nelle sue parole non c’è più traccia di rottamazione, espediente linguistico non meno violento che volgare, ma neppure si coglie un profilo di rinnovamento o di prospettiva strategica: Renzi parla e agisce da tattico puro, come gli inconcludenti dinosauri, quelli al potere da sempre, che doveva mandare a casa.
Così, dopo aver fatto seppellire Franceschini (colpevole di intelligence con i grillini) sotto una montagna di #senzadime, dalla mattina alla sera ha cominciato a emularlo su posizioni di dialogo con il Movimento; le stesse sostenute, poco dopo, anche da Prodi. Non pare davvero, questa, una convergenza casuale, come non sembra un caso che la differenza stessa tra Renzi e il nemico D’Alema, sua nemesi perfetta ed altro sostenitore dell’intesa con i 5S, si vada progressivamente assottigliando.
Entrambi cinici assoluti, essi condividono un devastante egocentrismo e una fiera spietatezza verso l’avversario: l’unica sostanziale variante è che mentre il secondo persegue (e tiene a) una propria intima coerenza, per quanto discutibile, Renzi è un funambolo del possibile: uno che può dire di tutto, e la cui parola vale comunque poco, se non pochissimo.
Indole personale a parte, tutti i leader citati di sopra si ritrovano su un essenziale elemento di valutazione: ciascuno di loro pensa di poter curare una crisi strutturale di potere e di consenso con un accordo di potere posticcio, precario in premesse ed orizzonti. Questo, ripetiamo, soltanto per togliere il pallino a Salvini, e quindi “salvare le istituzioni”.
Anche sul concetto di salvataggio istituzionale, peraltro, bisognerebbe intendersi. Ci sono almeno due livelli di riscatto possibile della politica e di chi la interpreta: uno si propone un ripensamento radicale di contenuti, rappresentanze e modelli di riferimento, ed è senza dubbio faticoso e complesso nel suo perfezionamento, che richiede tempo e - appunto - un forte investimento “culturale”; l’altro, più semplicemente, riduce il perimetro del da farsi all’isolamento del pericolo, sia esso partito o leader, e alla costituzione di un alleanza di salute pubblica “versus” il nemico.
Il ventennio scorso, quando il pericolo era rappresentato da un Berlusconi assai più vitale e competitivo, è stato costellato e scandito dai “cartelli contro”, grandi e improbabili ammucchiate in nome della civiltà e della salvezza nazionale. Tuttavia, ogni qual volta i rapporti di forze si sono per qualche ragione invertiti, l’impresentabile Berlusconi è sempre diventato un buon interlocutore: lo è stato per la Bicamerale, con D’Alema primo ministro, è tornato ad esserlo ai tempi del patto del Nazareno.
Si può quindi ben dire che il risultato di questi cartelli di salute pubblica sia stato, al massimo, elettorale: con un successo nel ’96 e un pareggio nel 2006, entrambi poi vanificati proprio dalla precarietà delle piattaforme politiche adottate in entrambe le occasioni. Ma di cambiamenti culturali, di stile sostanziale, di riscatto della politica e di istituzioni che dovevano essere occupate e presidiate con ben altra dignità rispetto ai tempi del “mostro” di turno, di tutto questo - diciamocelo serenamente - mai neppure l’ombra.
La sinistra (o il centrosinistra) di governo ha sempre pensato che la crisi e la degenerazione delle istituzioni si esaurisse con la propria assenza dalla plancia di comando. Che un imprenditore con tre televisioni potesse fondare un partito, vincere le elezioni e usare il Parlamento per fermare dei processi giudiziari contro di lui, e ciò nonostante ottenere un consenso dilagante, questo era un problema sentito solo in chiave elettorale, non il sintomo di una crisi culturale profonda, che come tale meritava risposte profonde: più culturali, appunto, che politiche in senso stretto.
Invece ci si è accontentati di battere il nemico e spartire il potere, rivendicando al tempo stesso un diverso standing e un superiore senso dello stato: anche attraverso la normalizzazione dei rapporti con il “mostro". È un vecchio, eppure attualissimo, complesso di superiorità della sinistra: l'idea di autoproclamarsi, naturaliter, migliore di tutti.
Una teoria criticabile ma certamente robusta, che implica la stessa convinzione odierna, quella di “dover governare” - indifferenti i compagni di strada, tanto saranno normalizzati anche loro - per salvare il Paese. Come se il Paese si potesse salvare solo da sinistra, con buona pace per chi pensa (e vota) il contrario.
Così, dopo aver ritenuto di dover mondare l’Italia dal pericolo del Cavaliere - che infatti a ottantatré anni è ancora lì, vivo e vegeto, e nel degrado complessivo riesce persino a fare una discreta figura - ora è il turno del Capitano: da rimuovere come un corpo estraneo, in una logica esclusivamente chirurgica e indifferente all'indagine clinica. Dove quest’ultima vorrebbe ragionevolmente spiegate le premesse culturali e sociali dell’affermazione di Salvini, oltre a invocarne la mera e semplice caduta, o estrazione che dir si voglia.
Non ci si pone il dubbio che proprio a colpi di rottamazione, leaderismo insofferente al dissenso, personalizzazione sempre più radicale del tema politico, fino alla ridicolizzazione dell’avversario (“Fassina chi?”), la strada per un altro solipsista di talento, arrogante e appassionato di ruspe, sia stata spianata un poco alla volta.
Si dirà che la rudezza di Renzi ha spesso semplificato il quadro e mosso le acque, portando risultati pratici. Questo è stato probabilmente vero all’inizio, dopodiché quella rudezza ha drogato il dibattito di cattive abitudini verbali. Da lì alle nefandezze di Salvini la distanza non è stata certamente breve, ma neppure infinita. Il che, intendiamoci, non toglie i meriti di Renzi, che ci sono e non sono pochi né banali. E neppure vuole innescare paragoni indebiti tra Renzi o Salvini come uomini di governo.
Segnalare una contiguità culturale, una prossimità di stili comportamentali non significa infatti equipararli tout court: significa propriamente rilevare che al netto delle opzioni politiche esiste un collegamento antropologico profondo, a sua volta riferito alle degenerazioni di un passato recente, in cui (come abbiamo visto) i “mostri” diventavano facilmente interlocutori dei loro stessi cacciatori; per poi tornare tutti quanti alle tradizionali ostilità come se niente fosse, ricominciando un devastante gioco delle parti che ha sempre più stordito l’opinione pubblica, e giocoforza favorito la svolta populista.
Tutto questo è stato fatto spesso in nome di una “ragione di Stato” abusatissima nella tradizione politica nazionale, e probabilmente unico autentico momento in cui l’elemento statuale assume forza e dirimenza nel sentire del ceto politico. Quanto detto per concludere che non vale la pena offendersi con chi il paragone tra i due Matteo lo ha già fatto, e anche con maggiore crudezza, vedi L’Espresso: è nell’ordine naturale delle cose associare approcci umani così simili e affini, e questo vale anche quando i contenuti ideali dei personaggi in questione divergono.
Però anche qui facciamo attenzione: possono anche divergere su piani di merito, ma certamente non nel tipo di veicolazione dei messaggi, sempre intriso dell’urgenza propria dei tempi, e in particolare di chi i tempi li cavalca, piuttosto che interpretarli. E neppure si colgono particolari distanze nella reciproca inclinazione a disconoscere (in pochi mesi, o giorni, a volte ore) tesi, opinioni o promesse, quasi la coerenza fosse un impiccio a cui diventa legittimo sottrarsi, e senza troppi rimorsi o imbarazzi.
Il fatto è che siamo sempre molto concentrati sulle emergenze, e questo aiuta gli incoerenti. Siamo talmente concentrati su di esse da produrne continuamente di nuove, fino a giustificare - attraverso le stesse - un’astensione critica su questioni tutt’altro che secondarie: come ad esempio, appunto, il fatto di mantenere ferma una posizione, senza capovolgerla o rimangiarsela in un battito di ciglia.
Oggi però non si parla di questo, oggi è sufficiente tacitare Salvini, ammesso di riuscirci. E il prezzo pagato per farlo è compromettere, una volta di più, la chiarezza di un’idea, e insieme di una prospettiva politica davvero alternative: negando ad esse il tempo necessario per definirsi, consolidarsi e soprattutto condividersi tra le tante persone (oggi prevalentemente non votanti) che chiedono scelte differenti, e politici più coraggiosi. Dove coraggio non sia visto come arroganza o spregiudicatezza. Ma almeno, quello sì, come il coraggio di staccare il culo dalla sedia e di farsi da parte, quando è il caso.