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La recente campagna elettorale e ancor più il confronto che ne è seguito per la formazione di una maggioranza di governo, danno ragione a chi da tempo sostiene che la dialettica politica non si muova più prevalentemente sul piano della competizione tra destra e sinistra, ma su un altro piano. Non a caso, ad esempio, il tema dell’integrazione europea, pur non essendo di per sé né di destra né di sinistra, è divenuto divisivo e distintivo.

Il nuovo paradigma mette al confronto due diverse culture politiche, certo, una aperta e l’altra chiusa, una inclusiva e l’altra esclusiva; ma l’elemento che davvero fa la differenza riguarda un atteggiamento più esistenziale che politico: il confronto tra il sì e il no, tra il per e il contro, tra il pro e l’anti. La nuova epoca chiama gli individui a un nuovo rapporto con l’incertezza e il senso di stanchezza che essa genera: il senso di stanchezza non deriva infatti dai chilometri che si hanno alle spalle, ma dalla nebbia che si ha di fronte. L’epoca 4.0 ci chiama dunque a metterci in discussione sul piano individuale, a metterci in gioco, a immaginare un futuro diverso e imprevedibile, a un nuovo rapporto con l’errore e col fallimento: oggi fallire è normale, si impara e si riparte.

La nuova epoca richiede il primato della responsabilità individuale sulla responsabilità sociale. Oggi gli individui sono di fronte a una sfida nuova: superare il senso di frustrazione derivato dai propri inevitabili mancati successi. Non tutti sono pronti, i più non lo sono, non lo siamo. Così ci mettiamo alla ricerca di qualcosa che possa alleviare il senso di frustrazione. Chi meglio di un “nemico” sul quale scaricare ogni responsabilità? Per questa ragione chi indica nemici fa oggi più proseliti di chi indica soluzioni ed è così che, in fondo, nasce e cresce la cultura politica ribellista che, secondo me impropriamente, chiamiamo populista. Essa si fonda sull’effimero riscatto derivante dalla sconfitta del nemico, quindi sul sentimento del “contro”.

Questo dilagante ribellismo privo di visione, non è un fenomeno solo italiano. Come è ampiamente noto, esso coinvolge, in modi diversi, gli altri paesi europei e financo gli USA. Nigel Farange, Marie Le Pen e Donald Trump hanno molto in comune con i Beppe Grillo nostrani, ad esempio l'avversione ai processi di integrazione quali quello dell'Unione Europea, la criminalizzazione di un generico mondo finanziario, la presunzione di rappresentare autenticamente il popolo nel presunto conflitto tra politici (tutti carnefici) e cittadini (tutti vittime). In Italia questo atteggiamento trova ampio spazio, esso è profondamente e quasi antropologicamente “italiano”: in fondo, per quanto questo fenomeno sia stato amplificato dall’insorgere della nuova epoca, in effetti da sempre siamo la Repubblica del no: siamo quelli che mugugnano quando si forma un governo e festeggiano quando cade. 

Si tratta di un atteggiamento che affonda le sue radici nella cultura fascista, dove la negazione prevale sull'affermazione, il no sul sì, l'attribuzione di colpe sull'assunzione di responsabilità. Questo atteggiamento politico, per le forme con cui si esprime, può essere considerato come una sorta di fascismo 2.0; esso è capace di attrarre una moltitudine di individui. Essi non sono ideatori, ma figli di una cultura che solo ora trova spazio, ma il cui germe covava da quel dí. Si tratta di una cultura politica trasversale, capace di mettere insieme l’avversione contro i nemici del popolo (più tipici del linguaggio che fu della destra), con il nemico di classe (tipico del linguaggio di quella che fu la sinistra).

In occasione del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, i fascisti 2.0 "di destra" e "di sinistra" hanno in qualche modo gettato la maschera, mettendo in evidenza il loro comune atteggiamento ribellista, fondato sul bisogno del nemico e sulla sua ridicolizzazione, un atteggiamento reazionario a ogni proposito innovatore. La tentazione di tanti attuali dirigenti Dem di valorizzare le assonanze col mondo grillino, non è certo una novità. Fu tentazione ampiamente praticata da Bersani, emblematicamente e drammaticamente rappresentata nello “streaming dell’elemosina” del 2013, e sancita da D’Alema col brindisi dedicato alla sconfitta di Renzi, appunto in occasione del referendum, tre anni dopo.

La cultura ribellista ha in soggetti come Travaglio i suoi intellettuali di riferimento, in personaggi come Maurizio Crozza i suoi megafoni televisivi, in leader come Matteo Salvini e Luigi Di Maio i suoi riferimenti politici, in grigi rappresentanti della sinistra arcaica come Michele Emiliano i suoi fiancheggiatori, in Beppe Grillo il suo profeta, un profeta capace di reinterpretare il "me ne frego" delle squadracce degli anni venti, grazie a quel suo "vaffanculo" che anima un illusorio e adolescenziale spirito di rivalsa sociale. Finalmente in questo scenario anche ex e post comunisti, orfani di un credibile impianto ideale, dopo aver sperimentato diversi approdi tra cui il bacchettonismo giustizialista, trovano nel fascismo 2.0 un lido piuttosto accogliente ove svernare.

Se ci guardiamo indietro, scopriamo facilmente quanto l’Italia sia davvero la Repubblica del no. La sua stessa genesi è “contro”: antifascista. Definirla democratica, evidentemente, non era considerato sufficientemente “ribelle”. La cultura del contro ha caratterizzato la scena politica nel ventennio fascista  grazie alla retorica del tanti nemici, tanto onore, poi grazie alla discontinuità antifascista, all’anticapitalismo del PCI, alla costruzione della “diga anticomunista” della DC, poi all’anticraxismo, all’antiberlusconismo e infine all’antirenzismo.

Oggi, di fronte alla vittoria del fronte ribellista, cementato dalla cultura del contro, la risposta più distintiva e differenziante è rappresentata dalla proposta di una cultura politica fondata sul “per”. Per questa ragione l’opzione del “fronte antipopulista” appare inadeguata, perdente e, in fondo, non discontinua rispetto allo stesso fronte ribellista. Tra coloro che non si riconoscono nel fronte pentaleghista, i più parlano di opposizione dura. Opposizione: per me è una strana parola. Indica normalmente la forza politica (o l'alleanza) che non vince le elezioni. Chi perde non sarebbe dunque chiamato a collaborare con sguardo critico e sollecitare il governo. No, sarebbe chiamato a opporsi. Questa concezione non è forse ancora una volta figlia della cultura del contro?

Se pensiamo a una qualunque organizzazione fatta di persone, un'associazione, un circolo, un'azienda, rifiutiamo l'idea che qualcuno la cui visione non abbia avuto consenso maggioritario, remi contro chi ha la responsabilità di condurre l'organizzazione. Ma quando c'è di mezzo la politica, allora cambia tutto: chi perde deve opporsi, meglio se “duramente”. Questa concezione perversa del confronto politico, porta la parte che esce vittoriosa dalla competizione elettorale a festeggiare come se il bene avesse finalmente trionfato sul male, come se da quel momento i malvagi fossero sconfitti, come se, finalmente, si aprisse la possibilità di liberare la felicità degli individui fino a quel momento repressa dal governo dei malvagi.

Ridicolizzare le proposte dei propri competitori è stile che oggi deve contraddistinguere i soli ribellisti. Per contrastare la cultura pentaleghista, non serve organizzare il “fronte contro”, è necessario costruire il “movimento per”. Un movimento che sappia parlare il linguaggio della nuova epoca, sia ugualmente attrattivo per gli ex “sinistri” e per gli ex “destri” e sappia proporre soluzioni sostenibili ma fortemente innovative. Un esempio per tutti: la questione fiscale. Certo, ci si può dedicare a mettere in evidenza l’insostenibilità della flat tax, la si può anche ridicolizzare, la si può definire iniqua in quanto favorevole ai “ricchi”, ma limitarsi a ciò equivale a difendere lo status quo. Ma lo status quo, per quanto attiene nella fattispecie la questione fiscale, invece, non va difeso, va radicalmente cambiato.

Occorre uscire dall’equivoco secondo cui in Italia “le tasse le pagano solo i lavoratori dipendenti”. Non è vero: le pagano i lavoratori dipendenti, certo (fatemi aggiungere: e ci mancherebbe altro), ma le pagano anche e soprattutto quei lavoratori autonomi e quei piccoli imprenditori che pagano per sé e per gli evasori. Essi sono sottoposti a un infame giogo imposto da un avido socio che esige la gran parte del reddito quando le cose vanno bene e sparisce, quando non ti affossa, quando le cose vanno meno bene. Salvini ha tutte le ragioni: la questione fiscale è centrale. Il Movimento Per è chiamato a immaginare un nuovo rapporto tra cittadino e Stato, fondato su un sistema fiscale riformato ancora più più radicalmente di quanto non possa fare la flat tax.

Ma non basta muoversi sul piano programmatico, occorre andare oltre un sano, ma vuoto pragmatismo, tipico di certe proposte “liberali”, è necessario dare coerenza alle proposte programmatiche grazie a una comune ispirazione: la stella polare della responsabilità individuale, il valore fondante e critico della nuova epoca. Solo così il Movimento Per potrà proporre una visione finalizzata alla promozione di un nuovo atteggiamento esistenziale finalmente liberato dal bisogno del nemico.

Se quello che ho preso a chiamare Movimento Per saprà tenere la barra del timone nella direzione di questo necessario cambiamento culturale, con coraggio e senza badare troppo al facile consenso, prima o poi la “cultura del per”, non potrà che affermarsi. Così, finalmente, per affermare la propria identità non sarà più necessario definirsi "anti qualcosa" e ci si potrà assumere la responsabilità di tifare a favore di chiunque abbia l’onere del governo, affinché possa governare al meglio. Finalmente arriverà il giorno in cui cesseremo di rivendicare il mondo perfetto e cercheremo, invece, di immaginare il bello e dargli spazio.