grasso liberi uguali

A un anno dal referendum costituzionale del 4 dicembre, sembra che più o meno tutte le facili profezie dell’epoca si siano pacificamente avverate. L’ammodernamento della Costituzione non era condizione sufficiente per accelerare le riforme e rimettere in carreggiata il paese, ma condizione necessaria sicuramente sì, e infatti un anno dopo è sparita dall’orizzonte del dibattito politico qualsiasi velleità riformatrice, e piuttosto la linea del Piave si è spostata abbondantemente più indietro, alla difesa delle due uniche riforme significative del passato recente - legge Fornero e Jobs Act - difesa per la quale in pochi sembrano disposti a rischiare la pelle.

Renzi non aveva un piano B, ma non ce lo aveva neanche il partito che lo ha seguito non troppo volentieri nella campagna referendaria. E infatti Renzi è ancora segretario di quel partito, eletto a larga maggioranza, custode di un declino elettorale al quale da solo difficilmente potrà fare da argine. Anche nel momento in cui dichiararsi anti-renziani era la cosa più facile e alla moda, l’introduzione necessaria a qualsiasi ragionamento, nel PD ha prevalso l’idea che fosse meglio che Renzi continuasse a scottarsi da solo con le responsabilità che nessuno ha mai immaginato per davvero di contendergli.

Un progetto alternativo non ce lo avevano nemmeno i suoi avversari dichiarati a sinistra, e non solo per la riforma costituzionale approvabile in 6 mesi e dai due terzi dei parlamentari vaticinata da D’Alema e mai neanche sintetizzata in un appunto a uso della stampa. Ieri la sinistra-sinistra ha perso l’occasione storica di costruire un vero partito di ispirazione laburista in competizione col PD per affidarsi a Pietro Grasso, un magistrato di cui nessuno conosce le ispirazioni ideali, politiche e ideologiche e che ha realizzato il suo cursus honorum nell’amministrazione della giustizia nella Prima Repubblica. Unica medaglia appuntata sul petto, originalissima di questi tempi, l’ostilità dichiarata per Renzi. Una scelta coerente con il riflesso condizionato che da circa un quarto di secolo suggerisce a una parte numericamente consistente e politicamente rilevante della sinistra italiana di sacrificare se stessa per fornire massa critica alla rappresentanza politica e corporativa dei magistrati.

Poteva nascere un partito di sinistra alla Corbyn, per il quale esiste spazio e agibilità politica, avremo un partito dei giudici alla Di Pietro, del quale sentono il bisogno solo i giudici. Ma la cifra di questa fase storica sembra essere quella del profilo basso - anche se si dichiara a volume altissimo - per cui ci si espone ma non troppo, ci si candida ma non troppo e non ci si assumono responsabilità politiche che potrebbero rimanere attaccate addosso come uno strato di pece e di piume. Le parabole di Monti e di Elsa Fornero prima, e oggi di Matteo Renzi sono lì a insegnare quanto si faccia presto a bruciare se stessi e il proprio capitale politico, e a suggerire a tutti che è meglio non alzare troppo il naso oltre il bordo della trincea, neanche per provare a difenderla.

E così, a un anno dalla disfatta del 4 dicembre, a difendere la trincea delle riforme fatte, caduta ormai quella delle riforme da fare, non è rimasto praticamente nessuno. Il lentissimo processo nato con un altro referendum, quello del 1993, si è fermato e non sembra avere oggi gambe per rimettersi in moto. Si attende una elezione mediocre per riposizionare uomini ed energie all’interno di una presunta maggioranza di “responsabili” - PD e Forza Italia - che tutti danno per scontata e che invece potrebbe non avere i numeri per governare.

La strada che l’Italia ha imboccato il 4 dicembre porta inesorabilmente altrove, e il lunedì mattina dopo le prossime elezioni politche potremmo avere un risveglio ancora più amaro di quello del 5 dicembre di un anno fa