Tonti Partenone

C'è un equivoco grande come una casa dietro la contrapposizione già abusata tra chi parla di 'quarto premier non eletto' e chi segnala che l'Articolo 92 della Costituzione repubblicana prevede la nomina del presidente del Consiglio da parte del Presidente della Repubblica. I primi non hanno ragione nel gridare allo 'skandalo!!1!', ma i secondi non dovrebbero esasperare la loro posizione, perché contiene una debolezza intrinseca.

Dai primi anni Novanta in poi, c'è stata in Italia una spinta ampia e trasversale per la "maggioritarizzazione" del sistema politico. Detto in altri termini, dopo la caduta del Muro di Berlino, si sono volute creare le condizioni istituzionali per una democrazia dell'alternanza, dove un partito o una coalizione di centrodestra competesse con un partito o una coalizione di centrosinistra per la guida del Paese. Non era stato così nel corso della Prima Repubblica, dall'immediato dopoguerra fino al 1992, perché la democrazia italiana era di fatto bloccata dalla cosiddetta "conventio ad excludendum" del PCI dal governo del Paese.

Con il Mattarellum (con cui abbiamo votato nel 1994, 1996 e 2001) e con il Porcellum (2006, 2008 e 2013) si è invece volutamente data una certa impostazione bipolare e concorrenziale alla dinamica politica. Va da sé che, fin dal 1994, il sistema politico ha visto emergere la figura del leader della coalizione e dunque del candidato premier "de facto".

Negli anni, i diversi inquilini del Quirinale hanno assecondato la logica (avrebbero potuto fare diversamente?) e dal 1994 al 2008 il presidente della Repubblica ha incaricato di formare il governo il leader della coalizione politica vincitrice delle elezioni: Berlusconi nel 1994, Prodi nel 1996, ancora Berlusconi nel 2001, di nuovo Prodi nel 2006 e nuovamente Berlusconi nel 2008. Questo "costume" politico ha peraltro avuto la sua proiezione locale nella elezione diretta dei sindaci, dei presidenti di provincia e dei presidenti di Regione.

Non è mancato chi ha costantemente segnalato la necessità di riforme tese ad adeguare l'architettura istituzionale al mutato sentire maggioritario, per irrobustirlo ed evitare il "tradimento" dell'indicazione degli elettori che si è avuto ogni qual volta i governi formatisi con le elezioni siano caduti e i presidenti della Repubblica abbiano registrato (e a volte favorito) l'emersione di maggioranze e dunque di governo diversi, privi di quel "bollino" elettorale ma pienamente legittimati.

È accaduto nel 1995 con la formazione del governo Dini (quando nacque l'espressione "ribaltone"), nel 1998 con il governo D'Alema, nel 2000 con l'esecutivo guidato da Amato, nel 2011 con Monti. Purtroppo, tra referendum elettorali e costituzionali bocciati o invalidi, la storia della Seconda Repubblica è anche quella della incapacità del sistema politico italiano di produrre questa effettiva modernizzazione istituzionale.

Nel 2013, dunque, i nodi sono venuti al pettine, allorquando le elezioni hanno per la prima volta consegnato un Parlamento tripolarizzato, dove la scelta di un premier non scelto dagli elettori si è posta come unica possibilità per la formazione di un governo. E dunque è nato il governo Letta, sostituito poi dal governo Renzi e ora da quello guidato da Gentiloni. "Il quarto governo consecutivo non eletto", dicono i detrattori. "Un governo pienamente legittimo, ex articolo 92 della Costituzione", sostengono gli altri. E ora?

E ora, dopo l'esito del referendum costituzionale, rischiamo che il mantra del governo e del premier non eletto diventi una costante della politica italiana, peraltro agitato dai più duri e puri sostenitori della "Costituzione più bella del mondo". Ne possiamo uscire solo in due modi.

Il primo, accettare il destino cinico e baro di un Paese votato al proporzionalismo, ai governi fatti e disfatti in Parlamento, al risentimento costante e allo scollamento perenne tra eletti ed elettori. Oppure - il secondo - possiamo cogliere l'occasione di questo diffuso sentimento di favore per "governi eletti" e promuovere - maggioranza e opposizioni - un sistema elettorale che riproponga l'indicazione maggioritaria del Mattarellum, che ne riduca le debolezze e che lo accompagni a modifiche possibili dell'assetto parlamentare, attraverso una modifica dei regolamenti che disincentivi o penalizzi cambi di casacca, frammentazione dei gruppi politici e ricatti ai governi.

Riforme costituzionali è balzano proporle ormai, ma la legge elettorale può servire allo scopo. Che sia uninominale a turno unico o a doppio turno, si può valutare. Che debba prevedere le primarie obbligatorie, si può valutare. Ma imboccare la strada dei collegi uninominali risponderebbe all'esigenza dei cittadini di conoscere i propri eletti e di indicare di fatto il candidato premier da "suggerire" al Presidente della Repubblica. Certo, stante lo schema tripolare il sistema uninominale non garantirebbe alcuna maggioranza certa: ma se questa fosse la volontà degli elettori in un dato turno elettorale, sarebbe bene rispettarla. Altra cosa è predeterminarla con un legge proporzionale tesa a evitare che si formi una maggioranza omogenea.

Ricordate quelli che, durante la campagna referendaria, dicevano che non c'era bisogno di cambiare la Carta ma "solo" di modificare legge elettorale e regolamenti parlamentari? Ecco, ora sarebbe il loro turno di far sentire le proprie proposte.