Brexit big

Mancano dieci giorni al referendum sulla Brexit e il risultato è incerto. Vedremo, basta aspettare. Quello che si può dire subito è che da Cameron e dai fautori del Remain sono finalmente arrivati, temo fuori tempo massimo, argomenti forti a difesa dell'Europa.

Il primo ministro britannico ha prima ammonito che con la Brexit "potremmo voltare all'indietro le lancette degli orologi verso un'era di nazionalismi in lotta fra loro in Europa" e scatenare nuove guerre. Gli ha fatto eco un suggestivo e ispirato Gordon Brown che, tra le rovine della basilica di Coventry bombardata dai nazisti, ricorda agli elettori britannici che grazie all'Unione per la prima volta nella storia in Europa si combatte con gli argomenti e non con gli armamenti.

Negli ultimi giorni, proseguendo la sua campagna per rimanere nella UE garantendo così alla Gran Bretagna di essere "Stronger, safer and better off", il primo ministro non ha avuto remore a sostenere che "Brexit creerà un buco nero tra i 20 e i 40 miliardi di sterline nelle nostre finanze e così i nostri ministri dovranno rivedere la riforma delle pensioni". Nel frattempo aveva avvisato che il costo del Leave sarebbe di 4.300 sterline per ogni famiglia del regno di Sua Maestà Elisabetta II.

Qualcuno legittimamente si chiederà come mai Cameron abbia allora promesso in campagna elettorale e poi convocato un referendum che egli stesso giudica suicida per il suo paese. L'importante, però, è che messo di fronte alla potente propaganda anti europea, tutta basata su evocazioni nazionaliste e xenofobe, egli reagisca agli argomenti, facili ma fallaci, usati anche nel suo partito contro il fantoccio polemico di una Bruxelles lontana dai cittadini e dimora della peggiore e stupida burocrazia del mondo, andando al sodo, al fondo, alla realtà dell'Unione Europea: un grande progetto di libertà, prosperità e pace per un continente scampato alla ferocia distruttiva del nazionalismo e dell'inscindibile protezionismo. Un progetto da difendere per i suoi risultati storicamente certificati ma soprattutto per le sue potenzialità in termini di sicurezza e prosperità futura, meglio garantite dalla condivisione di obiettivi e processi decisionali che dall'isolazionismo di ex potenze, tutte, da sole, ormai troppo deboli e incapaci di incidere sui destini del mondo. Inoltre il premier inglese ha spiegato chiaramente come il mercato unico europeo, da cui la Gran Bretagna trae grandi vantaggi, esista solo grazie e dentro all'Unione Europea e non sia destinato a sopravvivere alla sua crisi.

David Cameron, proprio lui, dopo aver imposto a febbraio al resto dell'Unione un accordo sbagliato ed inutile, ha finito per fornire la più semplice ma potente piattaforma politica per l'europeismo del ventunesimo secolo, con argomenti comprensibili ed evocativi, forti quanto quelli dei nazionalisti nostalgici. I primi a premiarlo, non è un caso, sono i giovani britannici, cosmopoliti nel dna e consapevoli che la difesa delle loro libertà è più forte dentro e non fuori dall'UE. Ora, a mio avviso, dovrà alzare il tono anche sull'immigrazione spiegando, anche qui, che senza la solidarietà e il comune impegno dentro la UE il confine esterno non sarà più a Lampedusa, ma a Dover e sarà più difficile, non più facile governare il fenomeno dei migranti isolandosi.

È possibile che l'asse propagandistico di gran parte dei conservatori con Nigel Farage l'abbia vinta; mi auguro di no. Ma, Brexit o no, con Cameron (speriamo) o senza, gli europeisti devono ripartire da qui (e dal discorso di Obama), per riprendere una narrativa non debolmente difensiva ma realistica, positiva e attrattiva dell'Unione Europea. Come per i nostri paesi, naturalmente, servono regole migliori e riforme; ma come per i nostri paesi o città prima di tutto ci vuole il coraggio e la volontà politica di cambiare in meglio e non di distruggere. Chi non crede all'Europa non lavorerà per averne una migliore e alla fine se ne andrà.

C'è uno scontro politico che sovrasta gli altri, in Europa e non solo: quello tra apertura e chiusura, tra nazionalismo ed internazionalismo. È uno scontro che chi pensa all'Unione come il futuro migliore per l'Europa può vincere o perdere, ma deve combattere. E deve farlo senza mezze misure e senza sudditanza psicologica e politica per la popolarità dei leader che invocano la chiusura come panacea. Sono vincenti non perché offrono soluzioni, ma perché indicano capri espiatori; nulla di nuovo. Non hanno ragione, anche se hanno consenso. Non dobbiamo inseguirli sul loro terreno, ma riguadagnare fieramente il nostro, come, ora che lo ha capito, sta cercando di fare il fronte del Remain.

@bendellavedova