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Sarebbe interessante capire quanti tra gli attuali sostenitori del 'progressismo costituzionale' nel giugno 2006 marciavano disciplinatamente dietro le insegne del Comitato per il No, presieduto dall'ex Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, che, tuonando contro la dittatura del premier e lo sfregio ai valori della Costituzione, seppellì la riforma senza infamia e senza lode del governo Berlusconi, per dare la spallata finale al Cav. dopo il quasi pareggio di due mesi prima alle elezioni politiche.

Altrettanto interessante sarebbe sapere quanti degli attuali difensori della Costituzione più bella del mondo - tutti gli esponenti del fu e neo centro-destra che il Foglio si stupisce di trovare intruppati con Travaglio e Zagrebelsky - fossero allora alla sbarra, processati dal fronte del No per i medesimi capi di imputazione politico-morali che essi oggi addebitano al Governo in carica: la "violazione della Costituzione", la "tirannia della maggioranza", la "soppressione delle garanzie democratiche"...

Al di là dell'esito della consultazione, che adesso si presenta più incerta - nel 2006 il massacro referendario per i favorevoli era annunciato nelle proporzioni in cui si verificò - ci sono molte somiglianze tra quanto avvenne allora e quanto rischia di avvenire ora.

Ad una lettura statica e formale, le due leggi di revisione, quella del 2005 e quella del 2016, tra loro evidentemente differenti, affrontano gli stessi problemi endemici del nostro equilibrio costituzionale: la debolezza degli esecutivi, la gravosità politico-istituzionale del bicameralismo perfetto, l'inefficienza del federalismo all'italiana. E per questi problemi, pur in forma diversa, trovano una soluzione tanto ampia - il numero degli articoli della Costituzione modificati è in entrambi i casi ragguardevole - quanto sostanzialmente precaria, perché dettata dall'urgenza di dare un segno di cambiamento e dalla difficoltà di farlo in modo organico legiferando, come usa dire, a colpi di maggioranza.

Ad una lettura politica e dinamica, se la riforma del 2005 rappresentò il tentativo disperato della maggioranza berlusconiana di fermare il declino di consenso con l'approvazione di una riforma concreta e politicamente simbolica, nel 2016 la riforma Renzi-Boschi esprime l'ambizione di inaugurare una lunga stagione politica egemonizzata dal leader costituente. In entrambi i casi le due riforme sono state sopravvalutate dai sostenitori nel loro valore epocale, ma soprattutto dagli avversari per la loro tossicità politico-costituzionale.

Il mantra della "Costituzione violata" ha rappresentato una vera e propria mitologia incapacitante della sinistra, ma alla fine è divenuta un'ideologia trasversale. Il vero partito della Nazione non è quello renziano, ma quello del "non toccare" o del "giù le mani da", quello dell'opposizione a qualunque riforma che riguardi uno dei feticci della storia repubblicana.

La presunzione che l'inefficienza delle istituzioni e delle politiche si fondi sempre su cause e colpe soggettive (ovviamente imputabili della maggioranza pro tempore) e mai su problemi oggettivi di regolazione (poco importa che si parli di lavoro, di crescita economica, di welfare o del funzionamento o dell'equilibrio dei poteri dello Stato..) è una sorta di pensiero unico di opposizione, che tutti sono disposti, alla bisogna, ad imbracciare denunciando una immancabile "emergenza democratica". Il che comporta, come reazione, da parte di chi difende le riforme, un eccesso di zelo nel sostenere il carattere grandioso e storicamente necessario delle leggi approvate, fino a derivarne una vera e propria filosofia della storia.

Il rischio plebiscitario del referendum, dunque, più che dalla scelta del premier di metterci la faccia (sarebbe surreale che ce la togliesse), deriva dalla pretesa che le parti hanno di ricavarne un responso generale su quale sia l'Italia giusta e quale quella sbagliata e su chi meriti di "incarnare" lo spirito migliore della storia nazionale.

Se sarà così - e a deciderlo obiettivamente non sarà il partito del Sì, ma quello del No - di qui ad ottobre saranno cinque mesi perduti, chiunque alla fine debba prevalere. Con argomenti che finiranno per essere: "Vota sì ai senatori gratis" o "Vota no all'immunità parlamentare per i senatori", pescati dal pozzo senza fondo del populismo nazionale.

@carmelopalma