Il rapporto fisiologico tra politica e affari, oltre il caso Guidi e i mani-pulitismi inutili
Istituzioni ed economia
Il caso dell'ex ministro Guidi dovrebbe in teoria cessare di rappresentare un caso, nel momento in cui, concordando (volente o nolente) con il premier sull'opportunità di un passo indietro, la stessa interessata ha rapidamente riconosciuto l'insostenibilità della propria posizione. Che è cosa diversa, ovviamente, da un'ammissione di responsabilità rispetto a un addebito che è, nel suo caso, esclusivamente politico, quale quello di avere taciuto l'interesse di un suo familiare per l'intervento dell'esecutivo sulle opere connesse al trasporto, allo stoccaggio e al carico del petrolio di Tempa Rossa.
Ma sugli scandali si campa politicamente di rendita, e quindi il caso Guidi, lungi dal chiudersi, rimarrà aperto, sicuramente fino al voto sul referendum anti-triv, che, vista la natura "petrolifera" dell'inchiesta lucana, consentirà ai favorevoli di rivendicare anche una superiore posizione morale rispetto ai contrari o agli astensionisti. Poco importa che il referendum non abbia alcun effetto sull'estrazione di idrocarburi dalla terraferma e che lo schema per cui le energie "sporche" comportano di per sé l'uso di mezzi politicamente sporchi, mentre quelle rinnovabili sono di per sé una garanzia di legalità, appartenga a quell'insopportabile manicheismo "mani-pulitista", che non ha sradicato affatto la corruzione, ma sta sradicando quel poco di cultura e di realtà industriale che era riuscita ad attecchire nel Sud Italia.
Vi è però un ulteriore e ancora più tossico effetto politico collaterale del caso Guidi, che non può certo essere addebitato all'ex ministro, bensì a molti dei suoi accusatori. La tesi che torna ad imporsi a furor di popolo è che il vero conflitto di interessi da prevenire e smascherare non sia quello del politico o esponente di governo interessato all'approvazione o all'abolizione di un provvedimento per ragioni di utilità personale o familiare, ma quello in capo a tutti gli operatori economici (proprio in quanto "economicamente interessati") nei loro rapporti con i decisori pubblici.
L'idea è insomma che se nelle richieste alla politica ci sono di mezzo "gli affari", i mediatori di queste richieste sono sempre sospettabili di mediazione illecita (il cosiddetto traffico di influenze), e i richiedenti di corruzione. Però è evidente che qualunque input politico ha un oggettivo output economico e rilevanti effetti di mercato, che gli stakeholders cercano di piegare a proprio vantaggio, fiancheggiando politicamente i difensori dei propri interessi e finanziandone o sostenendone l'attività. Il rapporto tra le istituzioni e gli affari è sempre delicato, e spesso pericoloso, ma appartiene costituzionalmente alla fisiologia, non solo alla patologia della politica democratica.
Fingere che sia non solo auspicabile, ma possibile il contrario, non aiuta a tracciare un confine visibile e difendibile tra il lecito e l'illecito e trasforma tutti i politici in ipocriti moralisti, i lobbisti in spericolati faccendieri e gli imprenditori in postulanti fintamente neutrali. Insomma, non spinge al meglio - che non significa più galera, ma più trasparenza - e incentiva al peggio. Sul punto non solo la cultura politica, ma anche la legislazione continua a muoversi in una direzione molto diversa da quella che sarebbe auspicabile.