Colonia Capodanno

L’assalto di Capodanno a Colonia, dove gruppi di arabi e nordafricani hanno pesantemente e insistentemente molestato sessualmente decine di donne svela ancora una volta molte dissonanze cognitive da compensare nel dibattito pubblico sull’immigrazione e più in generale sul rapporto tra culture più o meno apparentemente inconciliabili.

Da una parte c’è l’evidente cortocircuito di chi, avendo incasellato sia le donne che gli immigrati come categorie da difendere e proteggere - implicitamente: i buoni - oggi si rifugia in un silenzio imbarazzato e imbarazzante, come se il fatto di essere vittime non derivi dalla natura dell’atto subìto, ma dall’identità delle aggressore e dalle sue “attenuanti ideologiche”.

Dall’altra parte c’è chi ha (o crede di avere) fin troppo chiara la natura del problema, l’invasione islamica, e si limita ad indicare un nemico, piuttosto che una soluzione. Come se bastasse prendere atto dell’insostenibilità del fenomeno migratorio nelle proporzioni attuali per alleggerire la pressione alle frontiere e assicurare l’ordine pubblico nelle città. La rabbia e la paura che si trasformano, senza idee e senza programma, in aggregatori politici di successo, su e giù per il continente europeo.

Infine c’è chi ha a che fare con la realtà, come l’amministrazione comunale di Colonia e il governo tedesco. Si percepisce chiaramente l’inadeguatezza dei mezzi a disposizione di fronte alla natura dei problemi da affrontare, e vengono i brividi a pensare che l’episodio che ha messo in difficoltà le forze dell’ordine tedesche potrebbe verificarsi nella Roma dell’esodo per malattia dei vigili urbani a Capodanno.

Anche se non sono ancora chiare le reali proporzioni dell’assalto di Colonia, sia il numero di persone coinvolte - tra aggressori e vittime - che soprattutto gli incubi e le paure che suscita, non permettono di ridimensionarne la portata. Anche se non è ancora chiaro, e probabilmente non lo sarà mai, se ad aggredire le malcapitate donne e ragazze tedesche siano stati anche dei rifugiati dell’ultima ondata di profughi siriani, l’episodio richiama - volenti o nolenti - direttamente il problema della gestione e del controllo dei flussi migratori, e degli strumenti che abbiamo a disposizione nell’Europa della libera circolazione dei beni e delle persone.

Abbiamo interpretato la decisione di Angela Merkel di aprire le frontiere e le case tedesche ai profughi siriani come un atto, forse il primo, di leadership europea, sia per lo spartiacque che quella decisione ha rappresentato in tutto il continente, sia per l’ispirazione culturale che lo ha animato, autenticamente illuminista e occidentale. Ma dietro una leadership europea manca una infrastruttura europea, e quindi ogni Stato membro dell’Unione ha adottato politiche e strategie differenti, a cominciare dalle frontiere: chi ha usato la massa di profughi in transito sul proprio territorio come arma di ricatto, chi ha fatto lo stesso facendosi forte della propria distanza dagli epicentri della crisi, chi ne ha approfittato per chiedere non tanto politiche comuni per tutti ma lassismo sulle politiche di bilancio per sé. Un “rompete le righe” generalizzato, in cui sull’Europa vengono ipocritamente addossate le responsabilità della visione di brevissimo periodo degli Stati membri.

Oggi, invece di discutere di come difendere in maniera efficace le frontiere esterne dell’Europa, abbiamo ricominciato a parlare - e non solo a parlare - di ridurre la libertà di movimento all’interno dell’Europa, tra uno Stato e l’altro. Chiuderci in casa, come forse potrebbero sentirsi costrette a fare le donne di Colonia dopo l’assalto di Capodanno, piuttosto che reagire in maniera razionale ed efficiente. Il dibattito sull’immigrazione e sull’integrazione deve essere riaperto, e va condotto su basi razionali, che tengano adeguatamente conto anche dell’incomprimibilità della “domanda” di immigrazione, oltre che della disponibilità o meno della nostra “offerta” verso l’immigrazione. Altrimenti il campo sarà necessariamente occupato solo dal fragore degli arrabbiati e dal silenzio degli imbarazzati, e da questo rumore di fondo non potranno in alcun caso emergere soluzioni e strategie all'altezza della situazione.

La pressione demografica del mondo arabo verso l’Europa è paragonabile a quella dell’America Latina sugli Stati Uniti, ma porta con sé elementi di instabilità molto maggiori, che non derivano solo dalle differenze religiose e culturali, che ci sono e sono innegabili, ma anche dal fatto che la tensione si sta scaricando dai confini esterni a quelli interni. Questo è il pericolo più grande che stiamo correndo, e del quale probabilmente non abbiamo ancora ben chiare le possibili conseguenze.