Per tutta la sua storia, l'Europa è stata attraversata da confini e divisioni, un continuum di lingue diverse, di religioni e di etnie che si sono incontrate e confrontate, ibridandosi, commerciando, combattendo o sostenendosi. Una delle grandi menzogne "narrative" della storia europea è l'idea romantica degli Stati-Nazione come prodotto necessario e naturale per la vita di un "popolo" o come affermazione di libertà rispetto all'oppressione di un impero multinazionale, multietnico e multireligioso.

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Nulla più degli Stati-Nazione ha in realtà portato guerre, violenza, intolleranza e privazione della libertà. Se non esiste un'identità europea, come usano dire i critici dell'integrazione, è per la stessa ragione per cui non esisteva nemmeno una identità italiana: per generazioni, eccezion fatta per una élite cosmopolita, milioni di persone hanno trascorso la loro intera esistenza in un pugno di miglia, in un contado o in una città. Ma la storia europea è un groviglio inestricabile di vicende, cause ed effetti che si rincorrono e che non si arrestano con un fiume, una catena montuosa o un confine politico.

Il risorgere dei nazionalismi in Europa, dunque, è in realtà una reazione scomposta alle sfide globali. È l'illusione, alimentata da troppi cattivi pifferai, che da "padroni a casa nostra" sapremmo meglio governare i problemi del nostro tempo, mangeremmo cibo migliore (prodotto dai nostri agricoltori e allevatori, eh), avremmo meno malattie e più posti di lavoro, decideremmo su questioni che oggi ci appaiono lontane e impalpabili (come la politica monetaria).

Tanti accusano l'Unione Europea di fare poco e male, di non decidere, di non avere una politica estera comune, ma pochissimi si accorgono che sono i governi nazionali a trattenere le istituzioni europee, a non ceder loro prerogative e risorse, a non "federalizzare" le decisioni. È lo Stato-Nazione, come da secoli ormai, la vera zavorra dell'Europa.

Su queste basi, non riesco a sposare in toto la visione "ottimistica" di Marco Faraci circa quel che sta avvenendo oltre Manica, in vista del referendum del 2017 (o 2016?) che dovrebbe decidere sulla permanenza del Regno Unito nella UE. Condivido il buon giudizio di Faraci sulla condotta di David Cameron, che ha vinto le elezioni grazie ad una buona prestazione di politica economica e ha per ora risposto alle istanze nazionaliste britanniche (dalla UE) e scozzesi (dal Regno Unito) con la migliore delle soluzioni: il referendum come strumento pacifico di autodeterminazione. Considero il discorso sull'Europa che il primo ministro britannico ha tenuto nel 2013 una delle più belle e lucide visioni espresse dai leader europei negli ultimi anni.

Tuttavia, mi convincono poco quelle pulsioni dell'opinione pubblica più orientate ad alzare barriere che ad abbattarne di nuove. Il "fastidio" degli inglesi per i troppi giovani spagnoli o italiani che lavorano a Londra non ha molto a che vedere con la prospettiva di un continente aperto e competitivo, di cui proprio Cameron si fa portavoce.

Sono il protezionismo e l'isolazionismo i sentimenti prevalenti dei nazionalisti, non la riforma del mercato unico (che Cameron giustamente propone) o la maggiore legittimità democratica delle istituzioni comunitarie. La demonizzazione delle istituzioni europee – che siano quelle UE o la Corte di Giustizia Europea - è un esercizio di populismo molto efficace, nel Regno Unito come altrove, ma non aiuta di certo a migliorarle, quelle istituzioni malconce.

La visione idilliaca delle piccole patrie indipendenti che, libere e democratiche, vivono e commerciano tra loro in pace non si è mai data in natura, che ci piaccia o meno. Il nazionalismo crea danni nella cornice comunitaria, figuriamoci fuori. L'Europa merita piuttosto una svolta federale, una competizione (fiscale e regolatoria) tra Stati federati e una costituzione che tuteli l'individuo nello spazio civile europeo.