Per migliorare l'efficienza della P.A. e la qualità dei servizi, si dovrebbero introdurre, anche nel settore pubblico – tradizionalmente allergico a qualunque valutazione di merito - il sistema dei prezzi e la concorrenza.

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Tempo fa, su Strade, il professor Ugo Arrigo sottolineava quanto sarebbe importante avere uno 'Stato di mercato', ossia una pubblica amministrazione che funzioni secondo un sistema di prezzi e con criteri di contendibilità dell’offerta, per ridurre il gap di efficienza del sistema pubblico italiano rispetto a quello di altri paesi europei, soprattutto le realtà centro-settentrionali del continente.

L’esempio più immediato è forse la scuola, dove sistemi di voucher in dotazione alle famiglie o anche meccanismi di premialità economica degli insegnanti e degli istituti, sulla base dei risultati futuri degli studenti, permetterebbero di innescare una competizione virtuosa e una ricerca della qualità.

Ma forme di concorrenza nella PA potrebbero pervadere anche il welfare e persino le attività più propriamente amministrative e burocratiche, come il rilascio di permessi, autorizzazioni e documenti: se oggi in Italia un permesso di costruzione per un’azienda impiega circa 227 giorni ad essere rilasciato (dati Doing Business Banca Mondiale), contro una media Ocse di 152 giorni, forse sarebbe più opportuno far competere più agenzie pubbliche sullo stesso territorio per il rilascio dei permessi. Chi più fa (in termini di permessi concessi o permessi negati, s’intende), più soldi riceve dal bilancio statale.

Mettiamo enti e agenzie pubbliche in gara tra loro, superiamo quando è possibile il monopolio della competenza territoriale o “sdoppiamo” gli enti responsabili di un determinato ambito, riconosciamo entrate e trasferimenti alle amministrazioni pubbliche (e dunque risorse a dipendenti e dirigenti) sulla base dei risultati conseguiti e dei “volumi” di attività prodotti. Quando è possibile, facciamo competere agenzie pubbliche e private nell’erogazione dei servizi di natura pubblica.

Nulla di tutto questo viola le regole costituzionali di “imparzialità” e di “buon andamento” della pubblica amministrazione, semmai queste uscirebbero rafforzate dalla “liberalizzazione” dei servizi pubblici. Come appunto suggeriva Arrigo nell’articolo richiamato, si potrebbero separare gli enti pubblici responsabili della fornitura dei servizi e quelli direttamente chiamati a produrli per conto dei primi. Così, più enti produrrebbero lo stesso bene o servizio in concorrenza fra loro e sarebbero poi remunerati da poche centrali di acquisto a seconda dei risultati raggiunti. “Ma potendo allo stesso tempo anche fallire”, ha evidenziato Giacomo Mannheimer per Econopoly, rubrica del Sole 24 Ore: “Ogni ente sarebbe così libero di organizzarsi e autodisciplinarsi al suo interno, entro certi limiti, nel modo che ritenga migliore”.

In questo modo, gli incentivi alla produttività individuale potrebbero superare il fallace riferimento all’orario di ufficio o alla lotta all’assenteismo o ai fannulloni. L’auto-organizzazione del singolo ente scoperchierebbe probabilmente il vaso di Pandora dell’eccessivo numero di dipendenti pubblici, perché ben presto ci si renderebbe conto di quanta parte delle risorse a disposizione è assorbita dalle spese di personale e non dalla effettiva produzione di beni e servizi per la cittadinanza.

Troppo visionario? Impensabile? Forse. Ma non si era detto che bisognava cambiare tutto?