La proposta dell’INPS sulle pensioni, pur avendo il merito di “battere un colpo” in un settore a cui è urgente mettere mano, pecca di visione e di respiro, continuando a considerare solo il lavoro dipendente e a caricare sulle spalle dei giovani precari senza tutele un peso insostenibile. Al Jobs Act sul mercato del lavoro dovrebbe corrispondere un Jobs Act delle pensioni.

Cazzola vecchigiovani sito

“Il blocco delle uscite verso il pensionamento impone costi anche sotto forma di ritardi nei processi di ristrutturazione delle imprese e di mancata rotazione della manodopera nel pubblico impiego. Al di là di questo problema legato alla particolare intensità e durata della Grande Recessione e della successiva crisi del debito pubblico dell’area Euro, una maggiore flessibilità in uscita, se sostenibile, aumenterebbe grandemente il benessere delle famiglie che hanno, specie in quella fascia di età che precede il ritiro dalla vita attiva, esigenze ed aspirazioni molto diverse tra di loro. Il tutto alleggerendo la gestione del personale di imprese che altrimenti si troverebbero a dover dare lavoro a persone poco motivate, presumibilmente, poco produttive”.

Queste affermazioni campeggiano nella relazione che accompagna e illustra la c.d. proposta dell’Inps (“Non per cassa, ma per equità”) di riordino del sistema di welfare, a sostegno e spiegazione delle norme volte a introdurre “una transizione flessibile”. È veramente singolare che un intellettuale di rango e di prestigio, profondo conoscitore della materia come Tito Boeri, non trovi, come risposta alla crisi, una ricetta migliore di una massiccia operazione di prepensionamento.

Alleggerire gli organici dei lavoratori più anziani (“persone poco motivate”) favorirebbe i processi di ristrutturazione? È una logica vecchia, messa radicalmente in discussione in conseguenza degli andamenti demografici che pretendono e pretenderanno sempre più soluzioni di invecchiamento attivo, proprio per provvedere alle esigenze del mercato del lavoro.

È in generale l'effetto combinato dell’invecchiamento della popolazione e del crollo della natalità a creare (in un quadro solitamente critico di finanza pubblica) problemi per la sostenibilità economica dei sistemi e per l’equità dello scambio tra le generazioni presenti e quelle future, che è sempre sotteso all'organizzazione dei grandi sistemi di sicurezza sociale, specie se pensionistici. Ma nella proposta dell’Inps questi aspetti sono scomparsi dall’orizzonte, per ricadere nell’errore, da noi consueto, di usare i sistemi previdenziali – che per loro natura si misurano lungo una prospettiva di decenni – per promuovere politiche congiunturali di breve respiro.

Appartiene al novero delle leggende metropolitane la convinzione che si produca un ricambio virtuoso tra le generazioni espellendo dal mercato del lavoro anziani ancora in grado di lavorare per fare posto a giovani inoccupati. Si preparerebbe soltanto per questi ultimi – in un sistema finanziato a ripartizione – un futuro da contribuenti condannati a sostenere, con quote insostenibili del loro reddito, il pagamento (per molti anni, visti i trend dell’aspettativa di vita) di trattamenti pensionistici a persone uscite prematuramente dal mercato del lavoro e magari ricollocate in nuove occupazioni con altre tipologie di rapporti d’impiego.

Secondo l’Inps, dando corso alle sue proposte, si arriverebbe alla “fine della storia”, perché “una serie di aggiustamenti ben calibrati possono permetterci di non dover più intervenire in futuro, dando finalmente stabilità normativa, sicurezze ai contribuenti e ai pensionati”. In realtà le cose stanno diversamente.

Tra le tante, la critica di fondo che si può fare alla proposta è quella di non prefigurare una riforma che guardi al futuro, al mercato del lavoro di oggi e alle giovani generazioni. Il soggetto di riferimento continua ad essere una persona anziana – se così si può ancora definire un 55-60enne – con un progetto di vita ormai orientato alla quiescenza. Questa considerazione non si riferisce soltanto all’ipotesi di reddito di ultima istanza (di questo si tratta) a cui è dedicata la maggior parte degli articoli, ma all’impostazione complessiva e in particolare all’idea di flessibilità in uscita.

In sostanza, si finisce per accettare che la partita per il futuro sia stata chiusa nel 1995 attraverso la riforma Dini, la quale invece, ammesso e non concesso che sia in grado di garantire la sostenibilità del sistema (grazie all’introduzione del calcolo contributivo), non è certo tale da assicurare un minimo di adeguatezza.

La questione cruciale non sta nelle nuove regole (è un’altra leggenda metropolitana che il sistema contributivo sia di per sé penalizzante rispetto al retributivo), ma nelle trasformazioni del mercato del lavoro intervenute negli ultimi vent’anni. Il modello prefigurato dalla riforma Dini e dagli aggiustamenti successivi è rimasto con la testa rivolta all’indietro, nel senso che ha continuato a collocare i lavoratori di oggi e di domani nel mercato del lavoro di ieri, senza porsi l’obiettivo di come garantire ai giovani – a fronte delle mutate condizioni del mercato del lavoro nell’economia globalizzata e competitiva – un trattamento “adeguato” come previsto dall’articolo 38 della Costituzione.

L’istituzione della Gestione separata non ha certo risolto il problema. Qual è la vera preoccupazione dei giovani e per i giovani? Non solo e non tanto quella di vedersi applicare il calcolo contributivo. L’incerta prospettiva pensionistica delle generazioni future non deriva, infatti, dalle regole dell’accreditamento dei contributi e dal meccanismo di calcolo della prestazione, ma dalla loro condizione occupazionale precaria e saltuaria durante la vita lavorativa. Una carriera contraddistinta da un accesso tardivo al lavoro, da rapporti interrotti e discontinui, senza potersi giovare, inoltre, di un adeguato sistema di ammortizzatori sociali che cucia tra di loro i differenti periodi lavorativi, magari contraddistinti da rapporti regolati da regimi differenti, finirà per influire negativamente anche sulla pensione.

È evidente che occorre migliorare, nel senso di una maggiore uniformità, le tutele durante la vita lavorativa (il jobs act ha cercato di farlo, pur nel limite delle risorse disponibili), ma nessuno può illudersi che si possa tornare ad una generalità di lavoro dipendente stabile, e quindi a poter salvare la pensione di domani attraverso la salvaguardia forzosa, oggi, dei rapporti di lavoro standard.

Bisogna mettere in sinergia le politiche a favore dell’occupazione dei giovani con un riordino del sistema pensionistico che abbia lo sguardo rivolto in avanti, e cioè ad un modello che sia in grado di tutelare, al momento della quiescenza, il lavoro di oggi e di domani in tutte le sue peculiarità e differenze rispetto al passato. In sostanza si tratta di riportare, con il pantografo di un nuovo welfare, l’impostazione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (a valere solo per i nuovi assunti) anche nel campo delle pensioni.

I capisaldi di un ”jobs act delle pensioni” potrebbero essere i seguenti:
1) le nuove regole dovrebbero valere solo per i nuovi assunti e nuovi occupati (quindi per i giovani);
2) i versamenti sarebbero effettuati sulla base di un’aliquota uniforme – e pari al 24-25% - per dipendenti, autonomi e parasubordinati dando luogo a una pensione obbligatoria di natura contributiva;
3) sarebbe istituito per questi lavoratori un trattamento di base, ragguagliato all’importo dell’assegno sociale e finanziato dalla fiscalità generale, che faccia, a suo tempo, da zoccolo per la pensione contributiva o svolga il ruolo di reddito minimo per chi non ha potuto assicurarsi un trattamento pensionistico;
4) per quanto riguarda il finanziamento della pensione complementare sarebbero consentiti, sia pure con il corredo delle necessarie cautele, l’opting out volontario e il relativo versamento del corrispettivo in una forma di previdenza complementare.