La teoria della "decrescita felice", diffusa da Serge Latouche, si riaffaccia periodicamente sulle pagine dei quotidiani italiani. Questa corrente di pensiero esercita un certo fascino sulla sinistra italiana (ma non solo) ed è sempre stata considerata con sufficienza dalla grande maggioranza degli economisti. Proviamo ad illustrare le ragioni di questa diffidenza e le lacune di questa proposta politica.

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È innanzitutto doveroso mettere a fuoco l'oggetto della nostra analisi: le teorie della decrescita affermano la necessità di liberare la società e i suoi governanti dalla loro ossessione per la crescita economica, misurata dalla variazione percentuale del PIL. In particolare i sostenitori della decrescita accusano il PIL di non riuscire a catturare diversi fattori che concorrono al benessere sociale, includendo invece il risultato di attività che danneggiano consumatori e cittadini. La "religione" del PIL ignorerebbe ad esempio l'impatto delle attività economiche sull'ambiente, tenendo invece in considerazione il valore aggiunto prodotto dall'industria delle armi.

È un'idea non nuova (viene spesso citato come esempio eccellente un discorso di Bob Kennedy del 1968) che parte da considerazioni banali ma si rivela essere inconsistente. Tutte le critiche al PIL che abbiamo riassunto sono note ed accettate pressochè ovunque; allo stesso modo, l'origine umana del riscaldamento globale è una tesi sposata da quasi tutta la comunità scientifica. Il passo successivo è dunque chiedersi se questo fenomeno sia sostenibile nel medio-lungo periodo. Che impatto ambientale ha la crescita economica? Lo sviluppo sostenibile è solo uno slogan? Un calo del PIL può aumentare il benessere sociale?

In un articolo pubblicato nel 2010 su Ecological Economics, Jeroen van den Bergh critica le differenti versioni della teoria della decrescita senza per questo nascondere la sua ostilità alla teoria della crescita ortodossa e proponendo invece una terza via, un approccio che prende il nome di "a-crescita". Secondo van den Bergh la relazione tra dinamica del PIL e stato del patrimonio ambientale è non lineare e impossibile da conoscere senza prima aver compreso la struttura tecnologica del sistema economico in esame.

Una prima osservazione da fare concerne un aspetto della teoria della decrescita che viene spesso eluso dai suoi difensori: se l'obiettivo, infatti, riguarda la costruzione di un modello più sostenibile di sviluppo, in cui la gestione delle risorse naturali sia perno imprescindibile di un diverso rapporto tra economia e società, non si capisce in che senso l'inversione della direzione di causalità possa facilitare il raggiungimento di quest'obiettivo.

Non è automatico, infatti, che la riduzione del reddito nazionale si traduca in una produzione più pulita o che utilizzi tecnologie rinnovabili. Anzi, è più facile che un calo delle risorse monetarie finisca con il tradursi in un processo di regressione industriale in cui tecnologie obsolete, e più dannose per l'ambiente, vengano preferite ad altre innovative che consentono una maggiore preservazione dell'ambiente. Si pensi al recente ritorno in auge del carbone tra le fonti di energia: quando la ricchezza viene meno, il principio di scarsità induce a un utilizzo del rimanente in cui l'efficienza scavalca, come criterio, l'obiettivo eticamente più auspicabile. Quantità, insomma, batte qualità inevitabilmente, per banali questioni di pragmatismo.

La letteratura si interroga da anni sull'esistenza di una curva di Kutznets ambientale, una relazione, cioè, tra la crescita dell'economia e il livello di emissioni inquinanti. Esisterebbe una relazione ad U rovesciata tra le due grandezze, per cui la crescita dell'economia si accompagnerebbe a un aumento dell'inquinamento fino al raggiungimento di una soglia, oltrepassata la quale, invece, un PIL più elevato si tradurrebbe in maggiori investimenti in tecnologie verdi e in una sensibilità ambientale più forte, associata a leggi più stringenti, che contribuirebbero alla riduzione dell’inquinamento stesso. Non c’è unanimità, all’interno della letteratura scientifica, sul risultato, ma è ampiamente dimostrato, invece, che all‘aumentare del prodotto interno lordo crescenti risorse monetarie sono investite nella ricerca e sviluppo tesa a rendere più pulita la produzione industriale.

Un secondo aspetto della teoria della decrescita meriterebbe un maggiore livello di approfondimento e va a toccare, in questo caso, la dimensione microeconomica dei comportamenti. L'evidenza sperimentale, infatti, mostra chiaramente l'esistenza di un effetto noto in letteratura come 'avversione alle perdite': le persone, cioè, valutano la perdita di 10 euro, per fare un esempio, come esperienza edonica dall'intensità due volte e mezzo più forte di una vincita di pari ammontare. Perdere, per dirla con parole potabili, scoccia molto e pesa più di vedere aumentate le proprie risorse. La riduzione del PIL, per cui, potrebbe generare un gigantesco effetto macro in cui non è assolutamente chiaro come convincere una persona, attraverso la politica, della realtà di ciò che semplicemente non è vero: e cioè che meno sia più.

La questione è decisamente seria se si pensa, tra l'altro, che gli effetti di una riduzione del PIL non sarebbero equamente distribuiti, all'interno della popolazione, ma andrebbero ad abbattersi in modo regressivo, con i maggiori costi della riduzione di reddito sostenuti dalla fascia più povera della popolazione. È chi ha meno che soffre in misura proporzionalmente maggiore della riduzione percentuale del proprio reddito. Ed è chi ha meno che mostra una propensione marginale al consumo più alta. In un mondo in cui la disuguaglianza va assumendo, con una mole empirica di evidenza a sostegno, l'attenzione della comunità scientifica come tema forte su cui disegnare le nuove proposte di sviluppo, non ci pare proprio che la decrescita abbia dunque i crismi di un disegno progressista. Essa, anzi, presenta tutte le caratteristiche di un programma politico decisamente conservatore.

Un nodo teorico da sciogliere riguarda poi l'atteggiamento nei confronti dell'innovazione tecnologica: l'insieme delle risorse di cui disponiamo, infatti, e la loro innovabilità non sono elementi fissi ma sono funzione dello sviluppo tecnologico. Una risorsa è tale quando sappiamo come sfruttarla, ma la possibilità di sfruttare una risorsa dipende dalle nostre conoscenze tecnologiche, che variano anche sensibilmente nel tempo. La teoria della decrescita ignora il potenziale dell'innovazione come motore di sviluppo, prima di tutto occupazionale.

A tal proposito, una delle prospettive con cui il movimento della decrescita italiano prova a individuare un percorso per il nostro paese concerne il potenziamento della produzione agricola ed alimentare, le manifatture su piccola scala che privilegino l'uso di componenti biologiche o, in ogni caso, artigianato e produzione industriale fondati sul riuso o sull'esaltazione della dimensione locale (tessile, design industriale, etc.). Può essere in effetti affascinante l'idea che il nostro paese diventi una gigantesca fattoria, Arcadia del ventunesimo secolo dove la filiera alimentare-turistica generi ricchezza e sostenibilità per tutti. Anche qui, tuttavia, sono quanto meno opinabili alcuni assunti: il primo è che il potenziamento del turismo e la valorizzazione dei beni culturali vadano di pari passo con la preservazione delle risorse naturali. È tutto da dimostrare che la gestione di un flusso crescente di persone e gli annessi bisogni di servizi abitativi e di consumo consentano una maggiore sostenibilità e un miglioramento della qualità della vita.

Inoltre, l'evidenza empirica espone il ruolo fondamentale giocato dai settori di innovazione nella creazione di lavoro, e di lavoro di qualità. Enrico Moretti, dell'Università di Berkeley, nel suo articolo "Local multipliers" (American Economic Review, 2010), ha stimato l'impatto delle occupazioni nei settori hi-tech e farmaceutico, la vera locomotiva dell'economia USA: un ingegnere di software assunto a Google porta con sè un indotto di 5 altre assunzioni (nel settore dei servizi a bassa qualificazione ma anche tra le professioni, dai medici agli avvocati). In un bel capitolo di "La geografia del lavoro"(Mondadori, 2013), Moretti dedica largo spazio alle manifatture locali che, in misura crescente, vanno diffondendosi a macchia d'olio sulla East e sulla West Coast: prodotti di qualità, biologico, artigianato locale.

Queste iniziative hanno un significativo interesse culturale e sono oggetto di crescenti attenzioni da parte della stampa locale, trattandosi di realtà che meritano di essere sostenute. La produzione locale contribuisce a  trattenere una parte della ricchezza che altrimenti avrebbe potuto lasciare il paese, e in molti casi può vantare un impatto ambientale molto contenuto. Ma è altresì evidente che iniziative del genere non rappresentano il futuro dell'occupazione negli Stati Uniti. Sono destinate a rimanere fenomeni di nicchia perché il numero di posti di lavoro che riescono a generare è semplicemente troppo modesto per incidere in misura significativa. Soprattutto, questi impieghi non possono fungere da motore per la crescita occupazionale di una comunità; sono piuttosto il risultato di una ricchezza prodotta in qualche altro settore.

Ancora una volta, entra in gioco la distinzione tra causalità e correlazione. Pensiamo al caso di Eataly, cui Pagina99 ha dedicato un’inchiesta approfondita. Oscar Farinetti si è agganciato al treno Slow Food di Carlin Petrini, grande fautore del localismo e del km 0, nonché acerrimo nemico della frenesia e dell’efficienza, e a questo treno ha cambiato marcia e locomotiva, puntando tutto sulla dimensione globale e sullo sviluppo del mercato e del brand. Anche l’industria alimentare, insomma, se vuole produrre ricchezza, deve necessariamente ampliare le proprie prospettive di business.

Le piccole produzioni, il "kilometro zero", i programmi economici localistici e ricchi di nostalgia per un passato agreste idealizzato e decontestualizzato sono dunque mezzi inadeguati, da soli, a garantire la tutela del patrimonio ambientale e a generare occupazione e benessere per tutta la popolazione. Il ruolo dell'industria ad alta tecnologia è fondamentale; pensiamo a Tesla Motors, società statunitense di proprietà di Elon Musk, già fondatore di PayPal. Tesla è un'azienda automobilistica che produce veicoli di fascia alta totalmente elettrici. Minori consumi, risparmi enormi sul costo del carburante, semplicità costruttiva e quindi maggiore sicurezza e prestazioni che non hanno nulla da invidiare ai concorrenti a combustibile fossile. Ma il punto politicamente più interessante della strategia di Tesla Motors è la volontà di riconciliare ambiente e crescita economica, è il tentativo di creare un modello di sviluppo sostenibile e di farlo nell'industria automobilistica, uno dei pochi settori a coniugare alto livello tecnologico e impatto occupazionale di massa.

La teoria economica e l'esperienza ci dicono che è possibile tutelare il patrimonio naturale senza per questo fare a meno del benessere cui siamo abituati. La decrescita nelle sue varie accezioni è un concetto politicamente ambiguo perché non specifica troppe cose: chi decide di quanto deve calare il PIL? In che settori? Perché? Come attuare una strategia del genere? Perché i cittadini dovrebbero accettare di essere più poveri quando, semmai, il problema è che molti sono già troppo poveri? Perché costringere qualcuno a rinunciare a qualcosa dovrebbe essere una politica giusta? Le teorie della decrescita sono inconsistenti e pericolose: inconsistenti perché infondate empiricamente, basate su posizioni politiche e non sull'evidenza, perché ignorano la struttura degli incentivi individuali ed hanno un'idea primitiva dei sistemi economici, immaginati come insiemi di caratteristiche fisse ed immutabili nel tempo; pericolose perché, se applicate coerentemente, minaccerebero le libertà individuali e collettive dei cittadini e metterebbero a repentaglio la sopravvivenza dei sistemi democratici.

Un'agenda politica ed economica progressista dovrebbe invece essere innanzitutto improntata a un concetto esteso di libertà e cittadinanza, un insieme di proposte, progetti e riforme che offra una prospettiva di emancipazione globale dell'essere umano: liberazione della sua persona dai giudizi etici dei concittadini e dello Stato e liberazione dall'arbitrio di oligopolisti e monopolisti; liberazione dal grande capitale ma non dal mercato – a dire il vero, liberazione dal grande capitale proprio attraverso il mercato.

In definitiva, può anche essere utile smettere di guardare ossessivamente al PIL, cosa che per altro è già fatta da decenni da governi e uffici statistici nazionali, a patto che ci si cominci a preoccupare della libertà dei cittadini e del benessere dei consumatori e non si perda tempo ad auspicare un futuro agreste riservato a pochi, trascurando l'immiserimento progressivo di tutti gli altri.