logo editorialeLa lunga partita a scacchi tra Renzi e il Pd sulla riforma del mercato del lavoro è appena iniziata, ma sembra già conformarsi allo schema curiale di questo genere di "confronti a sinistra". Grandi dimostrazioni di disponibilità a dissimulare feroci chiusure e pregiudiziali difese del suolo sacro conquistato con le lotte operaie e sindacali degli anni '70.

Non sarebbe realistico attendersi che la CGIL e i Damiano (per non dire della FIOM e dei Landini) si arrendano al new deal blariano, che considerano (a ragione) estraneo alla tradizione della sinistra post-comunista. Ma, per le stesse ragioni, non è realistico auspicare una riforma che consenta a Renzi di salvare capra e cavoli, rottura e continuità, tradizione e innovazione all'insegna di un miracoloso "minimo comune denominatore" ideologico. Se ci sarà una riforma, ci sarà una rottura dolorosa e forse non componibile. Se sarà fatta salva l'unità del partito e della sinistra, non ci sarà nessuna riforma.

Una riforma interamente a valle dell'art. 18 e dei suoi corollari welfaristici – la conservazione della base occupazionale come variabile indipendente della politica del lavoro – non riformerebbe niente. Un aggiustamento che introducesse altre deroghe (generazionali, contrattuali, settoriali...) per neutralizzare l'inefficienza della regola, finirebbe per aggravare l'instabilità e l'iniquità del sistema. A far fuori l'articolo 18 e la cassa in deroga come tutele "normali" del lavoro dipendente non è la furia iconoclasta dei riformatori, ma l'obiettiva insostenibilità di un principio che disaccoppia l'occupazione legale e il lavoro reale, nell'illusione che a conservare la prima sia possibile resuscitare il secondo.

Il mercato del lavoro italiano ha limiti obiettivi e conosciuti. Il collocamento pubblico non esiste (a rottamarlo, il solo problema sarebbe la gestione degli esuberi) e quello privato, costretto a operare al margine del sistema, non ha né mezzi, né ruolo sufficiente per riconnettere domanda e offerta di lavoro, senza sciuparne nemmeno una stilla. L'assenza delle tutele attive e la disuguaglianza di quelle passive ha diviso il lavoro dipendente lungo linee che non rispettano né i meriti, né i bisogni, ma l'affiliazione e il "rango" dei lavoratori (da una parte i figli, dall'altra i figliastri). La moltiplicazione delle formule contrattuali e le possibili declinazioni di ciascuna di esse ha reso la legislazione sul lavoro una sorta di diritto-fai-da-te, di cui può recarsi in dubbio sia la chiarezza che la coerenza.

Il risultato è che visto che il legislatore deve stare alla larga dal contratto standard, che non si può discutere, né "toccare", il mercato del lavoro se ne tiene alla larga anch'esso, preferendo sopravvivere, con tutti i rischi del caso, nella giungla dell'atipicità. Quanti invitano Renzi ad andare avanti, ma a "non fare come Ichino" – cioè a non pensare che, per tornare alla normalità, occorra cambiare la normalità – offrono al segretario del Pd una protezione che l'interessato farebbe bene a rifiutare.