L'inquinamento è priorità assoluta nel dibattito politico cinese. Tra riforme interne e pressioni internazionali, Pechino si trova costretta ad assecondare le richieste di chi vuole città più pulite e maggiore libertà economica.

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L’anno del Cavallo, iniziato il 31 gennaio, dovrà segnare - nelle intenzioni della leadership cinese incoronata ormai un anno fa - un’accelerazione (d’altronde “velocemente” si dice in cinese “a cavallo”) nel processo riformatore avviato dal Terzo Plenum del Partito Comunista lo scorso novembre. Un piano vasto e ambizioso - nato non senza travagli - destinato a incidere profondamente sulle vite dei cinesi e sulle dinamiche economiche, sociali e forse anche politiche della Repubblica popolare.

Non sarà il balzo riformista che qualche osservatore occidentale si attendeva, ignaro forse dei tempi e delle modalità con cui si muove il potere cinese. Men che meno sarà il primo passo verso una Cina “liberale” o “democratica”: il sistema politico intende anzi rafforzare il proprio potere, non certo diluirlo o ammorbidirlo, come dimostra la creazione di un comitato per la sicurezza con il compito di monitorare le riforme e disinnescarne gli eventuali effetti più dirompenti.

Se a catturare l’attenzione della stampa internazionale è stato soprattutto l’annuncio dell’ammorbidimento di due dei simboli più noti (e meno positivi) della Cina comunista, ovvero i campi di lavoro e la politica del figlio unico, a mutare davvero il volto della Repubblica popolare saranno - se portati a termine come annunciato - altri interventi inclusi nella road map: la riforma agraria e le nuove norme sulla residenza, che incideranno profondamente sulla vita delle comunità extraurbane e più in generale sui rapporti città-campagna; la stretta sull’autonomia finanziaria delle province, nodo fondamentale e assai delicato, giacché la gestione delle oscillazioni del potere fra centro e periferie è una delle prove principali per chi si trovi a governare l’Impero di Mezzo (lo spiega efficacemente Pamela Kyle-Crossley, storica e sinologa presso il Dartmouth College, nel suo recente The Wobbling Pivot); la creazione di nuove “zone economiche speciali”, a partire da Shanghai, in cui testare le riforme (e magari depotenziare il ruolo di Hong Kong); l’ingresso di capitali privati in un sistema economico finora basato - almeno formalmente - sul capitalismo di Stato.

È soprattutto su quest’ultimo punto che si giocherà, all’interno del Partito, una dura lotta politica, combattuta però più in nome di interessi personali (molti alti mandarini hanno costruito fortune smisurate grazie alle industrie di Stato) che di “ideali politici” quali le virtù della concorrenza e del liberalismo. Il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang hanno - più dei loro predecessori - scelto di “metterci la faccia” fin da subito, consapevoli che un Politburo (il massimo organismo decisionale della RPC) a trazione “conservatrice” non renderà indolore il processo. La fiammata nazionalista di Xi Jinping, ben alimentata peraltro dal parallelo risveglio “militarista” del Giappone di Abe e dalla disputa sulle isole Diaoyu, e la campagna anti-corruzione che sta falcidiando più di un papavero a livello locale e centrale, serve al Presidente a costruirsi un’immagine di “uomo forte” da vendere all’interno del Partito, oltre che all’opinione pubblica interna e internazionale.

Eppure, nonostante le pianificazioni del Partito, la parola chiave dell’anno del Cavallo rischia di essere wuran, che non significa “riforme”, ma “inquinamento”. Se c’è un tema che può definirsi “centrale” nel dibattito pubblico cinese, è la qualità dell’aria (ma anche dell’acqua e del suolo). Non certo per decisione dei vertici di Pechino, che anzi hanno tentato di arginare (o censurare) la risonanza mediatica del fenomeno fin tanto che è stato possibile. Poi il peggioramento della situazione oltre ogni “linea rossa”, soprattutto sulla capitale e sulle maggiori città (Tianjin e Shanghai), ha costretto i vertiti politici nazionali a dare libero sfogo alla discussione pubblica del tema, fornendo dati e delineando interventi più o meno drastici per combattere quella che rischia di diventare una mina politica, molto più delle questioni su cui amiamo puntare i riflettori noi occidentali  (democrazia, pluralismo politico, libertà religiosa) e che però nella RPC sono assolutamente minoritari. L’inquinamento è, invece, un dramma molto concreto, che non poggia su teorie politiche o griglie ideali ma su dati scientifici (a Pechino, nei giorni peggiori i valori di PM2.5, ovvero le particelle più dannose per l’apparato respiratorio, aumentano del 50% e la visibilità scende a 10 metri) e, soprattutto, fisici; ed è un dramma molto “democratico”, che colpisce in particolar modo le fasce urbane e dunque anche la nuova borghesia, cui il governo cinese non può non guardare con particolare attenzione se vuole mantenerne l’appoggio e conservare il controllo sui gangli produttivi della società.

Anche la stampa ufficiale, dunque, affronta con cadenza pressoché quotidiana il tema: sul Renmin Ribao (Il Giornale del Popolo), sul Zhongguo Qingnian Bao (Il Giornale della Gioventù Cinese), sul Nanfang Ribao (Il Giornale del Sud), sul portale China Daily (in lingua inglese, ma espressione del governo), ma anche sulla tv di Stato, non passa giorno senza che - nello spazio non occupato dalla denuncia del riarmo giapponese - i vertici del partito non ribadiscano l’importanza della lotta all’inquinamento, proponendo ricette più o meno drastiche e più o meno efficaci (dalle targhe alterne allo stop ai botti di capodanno).

Una libertà di discussione per certi versi inedita che, se da una parte ha il vantaggio di aumentare la sensibilità politica al tema e accelerare la ricerca di soluzioni, dall’altra rischia di sfuggire di mano al vertice, causando problemi interni ed esterni. Le città cinesi avvolte dallo smog, le mascherine, i fiumi che sputano carcasse di pesci, l’aumento dei decessi per cancro ai polmoni: immagini capaci di mettere in evidenza con estrema efficacia il “lato oscuro” del modello cinese, che poi è il “lato oscuro” di un modello di sviluppo nato in Occidente e portato alle estreme conseguenze, ironia della storia, in un Paese comunista che della lotta al modello occidentale e capitalista ha fatto il suo paradigma fondativo.

Peraltro, un recente studio statunitense riportato sul New York Times ha dimostrato che a Delhi l’aria è malsana tanto quanto a Pechino, eppure né in India né fuori si parla di “emergenza indiana”: il che non potrà che alimentare i nervosismi di chi, tra i colleghi di Xi Jinping, mal digerisce l’eccessiva mediatizzazione del tema ambientale.

E così sulla qualità dell’aria si intrecciano tensioni interne e internazionali che metteranno alla prova la capacità di Xi e Li di rispondere alle emergenze a breve termine, oltre che alle sfide della longue durée. Per ora, mentre a Pechino si festeggia con meno fuochi d’artificio del solito, le nebbie che avvolgono i palazzi del potere cinese non sono più solo una metafora.