Fortunato il Paese che non ha bisogno di nuovi Mattei
Editoriale
Nella vicenda delle nomine governative nelle grandi società partecipate dallo Stato, la mancata conferma di Paolo Scaroni come amministratore delegato di Eni è la notizia di primo ordine. Solo dopo, molto dopo, arrivano le altre considerazioni sulla massiccia presenza di donne (tre su quattro dei nuovi presidenti) o sulla moderazione delle remunerazioni. Con la nomina di Claudio Descalzi, Renzi chiude un'epoca: Scaroni, nominato nel 2005 dal governo Berlusconi, è stato in questi anni un attore chiave di molte scelte e di alcune non-scelte della politica energetica e della politica estera italiana. Il governo ha considerato inevitabile un suo avvicendamento, anche in virtù delle mutate condizioni geopolitiche ed economiche in cui l'ENI si troverà ad operare in Italia e nel mondo. Non era scontato che il premier avesse il coraggio di una scelta simile: l'ha avuto e gliene va dato atto, tanto più che ha affiancato a Descalzi un cane da guardia della trasparenza come Luigi Zingales (tra i membri del cda).
L'economista di Chicago non è l'unico "mercatista" nell'elenco dei nuovi incarichi, con Alessandro De Nicola nel cda di Finmeccanica e Alberto Pera in quello di Enel. Sono personalità che non hanno mai celato una netta preferenza per la concorrenza e la riduzione del peso dello Stato nell'economia. Si spera che la loro presenza tra le "poltrone" delle grandi SpA a controllo pubblico riduca gli atteggiamenti anti concorrenziali espressi dai vertici di tali aziende nel passato e le isoli ancora di più dalle pressioni politiche e partitocratiche. Le nomine di Francesco Caio come a.d. di Poste Italiane (obiettivo: la privatizzazione), di Mauro Moretti in Finmeccanica, di Francesco Starace in Enel e quella del prossimo vertice di Terna saranno valutate dai mercati e dagli investitori nel tempo e sulla base dei risultati, ma è fuor di dubbio che sulla carta si tratta di figure dall'altissimo potenziale di competenza e innovazione.
Va tutto bene, dunque? No, ovviamente. La vicenda delle nomine nelle grandi società a controllo pubblico segnala un elemento di estrema debolezza italiana: l'eccessiva dipendenza dell'economia nazionale dai grandi "campioni" pubblici e parapubblici. Intendiamoci: mentre per Enel e Poste non c'è ormai ragione alcuna per conservare l'azionariato statale, non è uno scandalo - almeno per dei liberisti pragmatici - che lo Stato italiano si riservi il controllo di realtà come Eni e Finmeccanica, operative in ambiti estremamente statalizzati e militarizzati nel mondo. Ma è preoccupante, per un paese che aspira a restare tra le economie piú avanzate del pianeta, che siano ancora e solo le grandi aziende pubbliche il fulcro della presenza italiana in settori capital-intensive e ad alto contenuto tecnologico come l'energia, l'aerospaziale, la difesa, le reti infrastrutturali.
Sono passati molti decenni dai tempi di Enrico Mattei e Alberto Beneduce, sono cambiati i modi e i metodi, ma l'Italia soffre ancora del suo problema atavico: abbiamo una miriade di piccole e medie imprese dinamiche e agguerrite, ma abbiamo poche grandi aziende private, quelle che nel mondo producono i maggiori guadagni di innovazione, ricerca e produttività. Chi vuol lasciare un segno duraturo al Paese ha questa sfida da affrontare: favorire, determinando buone condizioni di sistema, la nascita e la crescita in Italia di nuovi grandi attori privati dell'economia mondiale. Fortunato il paese che non ha bisogno di nuovi Enrico Mattei.