logo editoriale"Le priorità sono altre". Una frase buona per tutte le discussioni politiche. Un'argomentazione resa forte dal contesto drammatico in cui viviamo, che rende secondaria e accantonabile ogni proposta di riforma che non appaia capace di conseguire risultati immediati per il contrasto della disoccupazione, la riduzione della pressione fiscale e la ripresa dell'attività produttiva. Ma ci sono almeno tre ragioni per le quali "Le priorità sono altre" è miope e dannosa.

Anzitutto, se la politica torna ad essere un'attività seria basata sul funzionamento regolare delle istituzioni parlamentari e non solo sui salotti televisivi e il lancio di annunci roboanti e battute argute, essa può occuparsi di più cose contemporaneamente. Da quando la decretazione d'urgenza del governo ha assunto di fatto il monopolio dell'iniziativa legislativa, con una pratica palesemente incostituzionale esasperata dal sistematico ricorso alla richiesta di fiducia sul governo, il Parlamento non ha possibilità alcuna di operare in maniera fisiologica ed efficiente. Il numero di deputati e senatori - 630 più 315, oltre ai senatori a vita - è elevato, ma appare abnorme anche perché le commissioni parlamentari tematiche sono sottoutilizzate. Da anni, ormai, pochissimi disegni di legge di iniziativa parlamentare si traducono in leggi della Repubblica, nella gran parte dei casi le proposte parlamentari sono pura propaganda o semplici segnalazioni di intenti. Nelle aule di Montecitorio e di palazzo Madama, le forze politiche finiscono allora per "sfogarsi" con la sovrapproduzione di inutili mozioni d'indirizzo, ordini del giorno, valanghe di emendamenti senza possibilità alcuna di approvazione. Il ritorno ad un iter legislativo regolare, anche attraverso la modernizzazione dei vetusti regolamenti parlamentari, consentirebbe al Parlamento di "fare" più cose, siano esse priorità o no.

La seconda argomentazione: "Le priorità sono altre" è la solita antica contrapposizione tra breve e lungo periodo. Una crescita economica solida è un obiettivo cui dedicare politiche di medio-lungo periodo e non solo misure atte a produrre un semplice e temporaneo sussulto del Pil. Stimolare l'innovazione e la creatività, includere nel perimetro dell'attività e della competizione economica chi è escluso, promuovere un clima culturale tollerante, aperto e plurale: ogni riforma, piccola o grande che sia, che si muova in questa direzione va favorita. Ciò vale per tematiche difficilmente contestabili (ad esempio, la necessità di una modernizzazione del sistema scolastico e universitario italiano), vale per gli ambiti nei quali il cambiamento trova l'opposizione di chi gode di rendite di posizione dallo status quo (le liberalizzazioni, per dirne una), ma è altrettanto vera per le istanze sociali più controverse, come i diritti civili degli omosessuali, l'antiproibizionismo, l'integrazione razziale e religiosa. Chi ha maggiore interesse per le questioni economiche sa che tutto è economia, ma contemporaneamente è consapevole che non c'è alcuna singola questione che - ceteris paribus, come si suol dire - possa da sola innescare un cambiamento significativo. Rimandare una riforma perché non appare prioritaria, significa rinviare ulteriormente negli anni e nei decenni i suoi effetti concreti, commettendo un errore uguale e contrario a chi nei decenni passati ha scaricato su questa epoca il costo del debito pubblico e delle mancate scelte di modernizzazione del paese.

La terza ragione per opporsi al mantra "Le priorità sono altre" è la necessità che ha la politica - se vuole riconquistare credibilità e incisività - di rivolgersi a tutti e a tutti gli aspetti della vita. Il benaltrismo ("ci vuole ben altro") è un'arma di distruzione della pluralità, è un alleato del pensiero unico, è un lievito per il qualunquismo. Ciò che appare marginale al sottoscritto, è cruciale per altri. Non esiste nelle preferenze politiche una gerarchia degli interessi e chi la persegue sta per definizione escludendo milioni di persone dal circuito della rappresentanza e alimentando la sfiducia nei confronti della politica e della sua capacità di incidere positivamente nella quotidianità. E' un errore fatale, che indebolisce persino la realizzabilità delle cosiddette "priorità".