logo editorialeIl confronto aspro tra il commissario europeo agli Affari economici Olli Rehn e il premier italiano Enrico Letta solleva alcune questioni rilevanti. L'allarme lanciato da Rehn sulla insufficienza delle misure strutturali di riduzione della spesa e del debito poste in essere dal governo italiano non può essere liquidato con fastidio o con una rivendicazione di sovranità da parte del presidente del Consiglio.

L'attuale disegno di legge di Stabilità per il 2014, in corso di esame parlamentare, è un provvedimento poco ambizioso. Il commissario Rehn dice cose note e ampiamente condivise: solo con più tagli strutturali di spesa più incisivi di quelli previsti e un piano di privatizzazioni più ampio e coraggioso, l'Italia può alleggerire la pressione fiscale, far crescere l'economia e risanare i conti pubblici. È il riconoscimento di un dato di realtà. E' vero, come ha dichiarato lo stesso Letta, che ormai da anni il nostro Paese è in uno stato di avanzo primario - cioè raccoglie più tasse di quanto spende, al netto degli interessi sul debito pubblico – ma proprio il costo dell'enorme stock di debito assorbe una parte troppo consistente del gettito fiscale. E non sarà un piano di privatizzazioni di soli 12 miliardi di euro, come quello predisposto dall'esecutivo, a risolvere il problema.

Il piano di revisione della spesa da 32 miliardi dal 2014 al 2017 (la cosiddetta spending review) che l'esecutivo ha affidato Carlo Cottarelli è un ottimo punto di partenza, ma sconta due debolezze congenite. La prima: pezzi rilevanti della maggioranza parlamentare lo contrasteranno subdolamente (vedi dichiarazioni di Fassina), altri non lo sosterranno a dovere. La seconda: il piano Cottarelli è al momento poco più che un impegno programmatico, da adempiere con prossimi provvedimenti legislativi. Ma i 32 miliardi sono già stati incorporati nel bilancio dei prossimi anni, con una formula molto pericolosa: se in tutto o in parte non ci saranno i tagli preventivati, scatteranno aumenti di aliquota e riduzione di agevolazione fiscali (cioè, più tasse). Continua con il governo Letta-Alfano una cattiva abitudine inaugurata dall'esecutivo guidato da Berlusconi, il rinvio al futuro (e ad altri governi) delle patate bollenti.

Alla legge di Stabilità mancano dunque due architravi fondamentali: un programma concreto di riduzione della spesa pubblica a valere già dal 2014, grazie al qual alleggerire l'insostenibile pressione fiscale sul lavoro e sulle imprese; un piano di abbattimento del debito pubblico, attraverso alienazioni di patrimonio mobiliare e immobiliare in mano allo Stato e agli enti locali, di un ordine di grandezza molto superiore alle timide privatizzazioni ipotizzate da Letta e Saccomanni.

Se ci fosse la volontà di un cambio di passo, ci sarebbe ancora il tempo, nel passaggio del disegno di legge alla Camera dei Deputati, per trasformare la legge di Stabilità per il 2014 in un provvedimento utile e vigoroso, capace di incidere positivamente sull'economia italiana. Ma tale volontà non c'è, almeno da parte di Enrico Letta. Anche lui, purtroppo, sta scegliendo la manutenzione del declino.

L'unica chance per uno scossone arriva da due pezzi della maggioranza parlamentare: la de-casinizzata Scelta Civica e i "renziani". Il partito di Mario Monti è l'unico, tra quelli presenti in Parlamento, ad avere le politiche liberali per la crescita e il rigore dei conti come proprio elementi costitutivi. I parlamentari vicini al sindaco di Firenze rappresentano invece l'anima meno social-conservatrice del PD. Anche politicamente i due gruppi avrebbero un cointeresse ad alzare la posta e fare proprie le obiezioni di Olli Rehn: i montiani per ritrovare uno spazio elettorale concreto e i renziani per segnare una differenza tra il "nuovo" PD che il loro leader preconizza e la mera gestione dell'esistente.