La sharia sovranista. Il Gay Pride proibito di Budapest e l’inizio della fine dell’Europa
Diritto e libertà

Come è noto dal 2021 ad oggi, con una serie di interventi legislativi, anche di rango costituzionale, la maggioranza sovranista di Victor Orban ha sottoposto la “propaganda dell’omosessualità” in Ungheria ad una serie di restrizioni. Il che significa, in buona misura, recludere persone e culture LGBTQ+ nel perimetro di una clandestinità ancora tollerata, ma impedire che la manifestazione del pensiero e dell’identità di milioni di gay, lesbiche e trans inquini la “normalità” della vita pubblica.
Non c’è dubbio che per moltissimi moderati, anche italiani, questa soluzione rappresenti un ragionevole giusto mezzo tra il fastidioso e scandaloso esibizionismo dei Pride e le cruente esecuzioni degli omosessuali appresi alle gru di Teheran o buttati a testa in giù dai tetti di Gaza.
Questo spiega perché, ad esempio, nel centro-destra italiano il progetto di un’Ungheria almeno pubblicamente LGBT-free non abbia suscitato scandalo e perché fino a ieri sera neppure la popolare tedesca che guida la Commissione europea, Ursula Von der Leyen, avesse detto una parola sul vasto programma discriminatorio di Orban.
Così il quasi monopolio delle proteste, sul piano internazionale, è finito in mano a quella parte del movimento LGBTQ+ sinistramente strabico rispetto alle violazioni dei diritti di omosessuali, lesbiche e trans, e implacabile nel censurare ogni deviazionismo dalla correttezza woke, ma disponibilissimo ad accogliere nel proprio seno i queer for Hamas. Un altro assist per Orban.
Le persone LGBTQ+ sono oggi evidentemente le prime vittime di un’onda sovranista che si configura, ovunque nel mondo, come una ribellione teleguidata di maggioranze ex silenziose contro minoranze rumorose e quindi silenziate, in nome delle persone comuni defraudate della loro orgogliosa “normalità”. Normalità sessuale, normalità etnica, normalità socio-culturale.
È un’onda con cui devono fare i conti anche gli oppositori dei campioni sovranisti. Il capo dell’opposizione ungherese, Peter Magyar, che ha scavalcato il Quisling putiniano nei sondaggi, non sarà al Gay Pride che domani si terrà a Budapest, con partecipazioni da tutta Europa, e che sfiderà il divieto di Orban. L’appello al buon costume, al comune senso del pudore e alla protezione dei minori non appaiono più solo pretesti di un pensiero codino e reazionario, ma reazioni in parte giustificate dagli eccessi di cui si è macchiata l’invadente cultura LGBTQ+.
Perciò, anche le politiche schiettamente discriminatorie finiscono per apparire una forma di legittima difesa. La frana intellettuale e morale dell’Occidente liberale è più rappresentata da questa condiscendenza di massa all’inevitabilità di una parziale marcia indietro sul terreno dei diritti civili inviolabili che dalla violenza dei mullah della nuova sharia sovranista.
Il disastro si compie più che nella determinazione dei teorici della democrazia illiberale, nella rassegnazione diffusa al nuovo spirito del tempo e nell’illusione che all’edificio della società aperta e dello stato di diritto si possa togliere la pietra angolare delle libertà personali “per qualcuno” – cioè per le minoranze più fastidiose e meno tollerate – senza temere che quel “qualcuno” presto o tardi diventino “tutti”. A Budapest si prepara la fine dell’Europa, non la fine degli eccessi e delle supposte prepotenze della comunità LGBTQ+.
