rudere grande

La possibilità di avere una casa propria, di scegliere dove e come vivere, è tra le libertà più autentiche dell’individuo. Si pensi a chi eredita un rudere in campagna: invece di venderlo o attendere improbabili aiuti pubblici, decide di rimetterlo in sesto da solo, nei fine settimana, un passo alla volta. Non ha ancora l’acqua corrente, né un tetto integro, ma per lui quella è già casa.

La possibilità di avere una casa propria, di scegliere dove e come vivere, è tra le libertà più autentiche dell’individuo. Si pensi a chi eredita un rudere in campagna: invece di venderlo o attendere improbabili aiuti pubblici, decide di rimetterlo in sesto da solo, nei fine settimana, un passo alla volta. Non ha ancora l’acqua corrente, né un tetto integro, ma per lui quella è già casa. È la sua idea di libertà. Nessun modulo o classificazione burocratica dovrebbe poter negare questa scelta. Nessuna norma farraginosa o funzionario ligio ai documenti più che alla realtà dovrebbe impedirla.

Una recente decisione della Corte di Cassazione (n. 3913 del 2025) ha riportato al centro proprio questa libertà: ha stabilito che anche un rudere, un edificio fatiscente, può accedere ai benefici fiscali riservati alla “prima casa”. Il criterio? La volontà seria e dimostrabile di chi acquista, di ristrutturare l’immobile e abitarlo.

È un principio antico. Nell’Atene del V secolo a.C., molti cittadini costruivano le loro abitazioni oltre le mura, su terreni non ufficialmente regolamentati, e nessuno li ostacolava con cavilli: era una libertà concreta, riconosciuta nei fatti. Alcuni decenni dopo, Aristotele, nella Metafisica, affermava che una casa è tale non solo quando esiste fisicamente, ma anche quando c’è l’intenzione e il progetto di realizzarla. Una visione dinamica, che guarda al potenziale anziché allo stato attuale.

Lo stesso spirito permeava il diritto romano: si riconosceva valore al processo di trasformazione. Importava non solo ciò che una cosa era, ma ciò che poteva diventare. E la proprietà si legava all’azione: chi rendeva produttiva una terra incolta ne diveniva legittimo possessore. Il possesso nasceva dal lavoro, non da un’autorizzazione.

Questo principio è sopravvissuto nei secoli, riaffiorando nelle consuetudini medievali: nei villaggi alpini, costruire e abitare stabilmente una baita era spesso sufficiente per vedersi riconoscere diritti stabili su quel bene. Anche nel mondo islamico medievale, secondo i giuristi hanafiti, il diritto a una casa derivava dalla costruzione e dall’uso: contava l’utilità concreta, non la formalità certificativa.

In epoca moderna, un identico impulso ha ispirato i coloni dell’America del Nord e i pionieri dello homesteading: l’iniziativa individuale conferiva legittimità, non il permesso statale. Il diritto nasceva dall’azione, non dalla domanda.
Ovunque si sia lasciato spazio all’autonomia delle persone, sono nate comunità vitali. Nel secondo dopoguerra, nelle campagne toscane, i contadini trasformarono poderi abbandonati in borghi abitati. Nessun piano centrale avrebbe potuto farlo: fu il desiderio di ricostruire e abitare a spingere quelle persone.

Anche in Italia, negli anni ’60 e ’70, molte famiglie meridionali emigrate al Nord acquistarono casolari nei paesi d’origine con l’idea di tornarvi. Li ristrutturavano d’estate, aiutati da parenti e vicini. Nessuna categoria catastale poteva spezzare quel legame profondo con la terra.

In proposito, Max Weber ha osservato che le società fioriscono quando gli individui sono liberi di agire, di iniziativa, di cambiare il corso delle cose. Karl R. Popper, a sua volta, ha parlato della grandezza dell’essere umano libero di sbagliare, ma anche di creare. Anche chi acquista un rudere per riportarlo in vita esercita quella stessa libertà.
Il problema nasce quando la burocrazia pretende di definire rigidamente cosa possa essere considerato una casa. Ma chi investe tempo e risorse in un rudere non sta ingannando lo Stato: sta facendo una scelta coraggiosa, diametralmente opposta a chi aspetta un sussidio. Sta dicendo: ci provo. E proprio detta volontà ha permesso, in ogni epoca, la rinascita di comunità intere.

Già nel 2002 e nel 2004, la giurisprudenza aveva ammesso che anche una casa in costruzione potesse beneficiare delle agevolazioni fiscali. Ora la Suprema Corte estende il principio anche agli edifici in rovina. È una conferma significativa: conta l’impegno reale a farne la propria abitazione, non lo stato attuale del fabbricato.

Negare simile possibilità sulla base di una classificazione catastale significa piegare le regole contro il buon senso. Lo hanno chiarito gli stessi Ermellini, riconoscendo che ciò che conta è l’intenzione seria e dimostrabile di destinare l’immobile a uso abitativo. Anche l’Agenzia delle Entrate, nell’interpello n. 138/2020, ha ribadito che un rudere regolarmente iscritto in catasto è, a tutti gli effetti, un immobile esistente.

Tale impostazione trova fondamento in una visione della società che valorizza il sapere distribuito e l’esperienza concreta degli individui. Friedrich A. von Hayek ha evidenziato come i sistemi centralizzati trascurino le conoscenze diffuse nella società: i processi spontanei, alimentati dall’iniziativa personale, permettono invece di riconoscere e attivare risorse spesso invisibili a chi governa dall’alto. La vera intelligenza sociale non risiede nei ministeri, ma tra coloro che vivono e conoscono i territori.

Un’idea analoga è stata sviluppata da James C. Scott, che ha mostrato come i progetti imposti dall’alto falliscano frequentemente proprio perché ignorano la voce di chi abita e conosce i luoghi. Lasciare spazio all’azione di chi vive il territorio può generare soluzioni efficaci e durature. Anche Adam Ferguson, nel Settecento scozzese, ha colto il richiamato aspetto: “le istituzioni umane sono spesso il risultato dell’azione, ma non del disegno dell’uomo”. Il recupero di un rudere segue esattamente l’indicata logica: non nasce da un piano pubblico, ma dalla libera iniziativa di una persona, spesso contro ogni ostacolo.

La libertà di ristrutturare, ricostruire, ridare vita a un edificio abbandonato non è solo una questione privata. È un beneficio per tutti: significa rivitalizzare borghi, valorizzare territori dimenticati. Se lo Stato la ostacola con norme rigide, resta solo l’abbandono.

Con la sua decisione, la Cassazione sceglie di fidarsi delle persone. Non si tratta di un dettaglio tecnico, ma di un segnale politico e culturale: i cittadini vanno incoraggiati, non intralciati. Quando il formalismo giuridico diventa eccessivo, rischia di soffocare la libertà concreta, impedendo agli individui di agire e intraprendere. Il diritto dovrebbe offrire opportunità, non ostacoli.
Anche un rudere può diventare il punto di partenza di una nuova vita. Basta permettere a chi ci crede di provarci. La forza di una società si misura proprio da ciò: dalla fiducia che ripone nei suoi cittadini.