Se anche la serratura elettronica diventa un atto di libertà
Diritto e libertà

Aprire una porta con un codice. Accogliere un ospite senza vederlo. Gestire un’abitazione in modo moderno, efficiente, autonomo. Tutto questo, per alcuni apparati dello Stato, è ancora oggi inaccettabile. La circolare del Ministero dell’Interno del 18 novembre 2024 aveva reintrodotto l’obbligo per i gestori degli affitti brevi di identificare fisicamente gli ospiti, vietando ogni forma di check-in da remoto. La giustificazione? Un generico richiamo alla “sicurezza pubblica”, all’“aumento delle locazioni brevi” e alla “difficile situazione internazionale” in vista del Giubileo del 2025.
Ma la sentenza del Tar del Lazio del 27 maggio 2025 ha annullato con fermezza quel provvedimento, riconoscendone l’illegittimità non solo formale ma sostanziale. «L’identificazione de visu […] non risulta onere idoneo a perseguire il risultato posto alla base dell’atto gravato», scrive il Tribunale. La misura non garantisce affatto la sicurezza, poiché «non fa venire meno il rischio che l’alloggio sia utilizzato anche da soggetti non identificati». Ed è proprio questo il cuore del problema: il potere che agisce senza efficacia, ma non senza danno.
Il danno consiste nel colpire, ancora una volta, il principio di autonomia del cittadino. Il medesimo Tar lo sottolinea chiaramente: la circolare è «in contrasto con l’attuale disposto dell’art. 109 TULPS», che dal 2011, per semplificare la vita alle imprese e ridurre gli oneri amministrativi, non richiede più l’identificazione fisica ma solo la verifica del documento e la comunicazione dei dati alla Questura tramite il portale Alloggiati Web. Pretendere di reintrodurre, per via amministrativa, ciò che il legislatore ha eliminato è una violazione diretta del principio di legalità.
Non è la prima volta che il potere tenta di invadere la sfera domestica con l’arma dell’identificazione obbligatoria. Già nel diritto romano la domus era considerata inviolabile, protetta dagli interdicta che impedivano ingerenze arbitrarie. Nessun funzionario poteva pretendere di verificare chi entrava o usciva da una casa, finché non vi fosse violenza o pericolo pubblico concreto. La proprietà era uno spazio di libertà garantita, non subordinata.
Ma la modernità ha lentamente rovesciato questo equilibrio. In Francia, già nel XVIII secolo, ogni locazione richiedeva registrazione presso le autorità, e dopo la Rivoluzione fu introdotto il livret d’ouvrier, una sorta di passaporto interno per ogni cittadino. La Prussia ottocentesca, emblema dell’efficienza autoritaria, impose obblighi capillari di registrazione per chiunque cambiasse domicilio. E infine, il fascismo italiano fece dell’identificazione obbligatoria uno strumento quotidiano di controllo: il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza del 1931 imponeva all’albergatore e al locatore di segnalare ogni ospite alla questura. La casa divenne il braccio domestico della sorveglianza pubblica.
La logica è sempre la stessa: dove il potere non riesce a prevenire, preferisce proibire. Dove non sa come gestire, preferisce limitare. E dove non c’è una minaccia dimostrabile, crea un clima di sospetto. Ma il Tar ha ribaltato questa logica: ha chiesto conto della “proporzionalità” della misura, sottolineando che «non è neppure specificato per quale ragione strumenti diversi […] non siano sufficienti a raggiungere il medesimo obiettivo». In altre parole, se l’identificazione da remoto funziona, perché vietarla?
Il vero obiettivo, allora, non è la sicurezza, ma la subordinazione. Costringere il gestore a farsi controllore, a presidiare l’ingresso, a rinunciare all’efficienza, significa minare l’autonomia della proprietà. Chi affitta, pur rispettando la legge, viene trattato come un soggetto da tenere d’occhio. Come se l’atto stesso di disporre della propria casa fosse, in sé, un pericolo. È l’antica idea secondo cui la libertà economica è un’anomalia da regolare, non una normalità da tutelare.
La casa è uno spazio personale, non un’estensione della burocrazia. La libertà di usare ciò che si possiede, senza causare danni a terzi, non dovrebbe necessitare di autorizzazioni, né di presenze forzate. Lo Stato ha il dovere di proteggere la sicurezza, ma non può farlo umiliando la legalità e la razionalità. Quando agisce senza legge e senza logica, il potere smette di essere pubblico e diventa arbitrario. È per questo che i rivoluzionari francesi, già nel 1789, proclamarono: «La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce agli altri» (art. 4 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino). Un principio tanto semplice quanto rivoluzionario, che oggi torna a risuonare in una decisione giurisdizionale che rifiuta l’arbitrio come metodo.
Allo stesso modo, l’Unione Europea, nel suo statuto fondamentale, sancisce che «la proprietà privata è inviolabile» e che «nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblico interesse e nei casi e nei modi previsti dalla legge» (Carta dei diritti fondamentali dell’UE, art. 17). Una norma che è più di una formula: è il presidio contro ogni tentazione regolatoria che voglia trasformare la casa in un presidio dello Stato anziché un rifugio dell’individuo.
Una porta che si apre con un codice, in silenzio, è oggi più che mai un atto di autodeterminazione. Non è solo comodità: è un confine. E il Tar del Lazio, con la sua sentenza, ha ricordato che su quel confine lo Stato non può entrare senza bussare, senza motivo e senza legge.
