Il paradosso della proprietà. La discutibile sentenza della Consulta sull'Imu per i beni-merce
Diritto e libertà

È stata depositata il 17 aprile 2025 la sentenza n. 49 della Corte costituzionale, con cui i giudici hanno respinto la questione di legittimità sollevata dalla Corte di giustizia tributaria del Lazio sull’articolo 13 del decreto-legge n. 201 del 2011, nella parte in cui sottopone all’IMU anche i cosiddetti “beni-merce”, ovvero i fabbricati costruiti dalle imprese e destinati esclusivamente alla vendita, ma non ancora locati né impiegati a fini produttivi.
Secondo i magistrati costituzionali, tale disposizione non viola i principi di eguaglianza, ragionevolezza e capacità contributiva previsti dagli articoli 3 e 53 della Costituzione. A nulla sono valse le argomentazioni della società ricorrente, che ha sottolineato l’assenza di utilità o redditività immediata di questi beni e denunciato l’“ondivago” comportamento del legislatore, colpevole di avere più volte modificato nel tempo la disciplina dell’IMU. La Consulta ha ritenuto comunque legittima l’imposizione, affermando che «ciò che rileva è la possibilità di avvalersi delle facoltà proprie del diritto reale e non il loro effettivo esercizio». Una posizione che riapre una riflessione più ampia sul significato della proprietà e sui limiti del potere fiscale.
A ben vedere, la pronuncia si fonda su una logica formale: ciò che rileva è la disponibilità giuridica del bene, non la sua effettiva utilizzazione o capacità di generare reddito. Ma qui sta il nodo cruciale: l’idea che lo Stato possa tassare un bene sulla base della semplice titolarità, e non in funzione della sua reale produttività, apre la strada a un’interpretazione che equipara ogni possesso a una ricchezza attiva. Con ciò si introduce una torsione pericolosa. Un immobile costruito e ancora invenduto, che non produce né reddito né vantaggi, viene trattato alla stregua di un asset già impiegato a fini economici.
È un’impostazione che contrasta con la più elementare concezione del giusto prelievo: si tassa ciò che produce, non ciò che è inerte. In un sistema equilibrato, il prelievo patrimoniale dovrebbe cogliere la sostanza economica dell’attività del contribuente, non la sua mera esposizione catastale. La tassazione di beni in attesa di mercato – e dunque privi di ritorno economico – equivale, in pratica, a colpire un’aspettativa, un’intenzione, un potenziale. Ma la realtà economica non si regge su potenzialità astratte, bensì su scelte concrete, su rischi affrontati e investimenti sostenuti.
Nel corso della storia, sistemi che hanno ritenuto di poter estendere il potere fiscale a ogni ambito della vita economica hanno spesso prodotto inefficienze, scoraggiato l’impresa e alimentato forme di stagnazione. Il legislatore, attraverso un’imposizione che prescinde dall’effettivo beneficio tratto dal bene, tradisce la propria funzione: non più arbitro imparziale, ma parte attiva in una partita in cui l’iniziativa economica è vista con sospetto.
Non è secondario, poi, che la sentenza giustifichi anche le oscillazioni normative che negli anni hanno riguardato l’IMU sui beni-merce. Esentati, tassati in misura ridotta, di nuovo esclusi dall’imposta, poi nuovamente inclusi: una vera e propria altalena normativa che mina ogni affidamento. Il rispetto delle regole del gioco impone invece prevedibilità e stabilità. Chi investe deve sapere su quale quadro normativo potrà contare, pena il disincentivo strutturale all’attività edilizia. L’incertezza fiscale è un potente nemico della costruzione e della rigenerazione urbana, tanto quanto lo è la burocrazia. Se le regole cambiano in corsa, a rimetterci sono sempre coloro che rispettano la legge.
In questa prospettiva, la distinzione tra beni strumentali e beni-merce non può essere cancellata con un tratto di penna. I primi sono parte del processo produttivo, i secondi sono il frutto di un’attività imprenditoriale che si concretizza solo con la vendita. L’equiparazione tra questi due ambiti è tecnicamente errata e sostanzialmente iniqua. Si finisce così per tassare chi non trae vantaggio da ciò che possiede, mentre si ammette che sia sufficiente la mera “potenzialità” a far scattare l’obbligazione tributaria.
Tutto ciò avviene in un contesto in cui l’iniziativa economica privata è fondamentale per garantire sviluppo, occupazione, accesso alla casa. Anziché agevolare chi costruisce, si gravano di ulteriori oneri coloro che non hanno ancora venduto. Chi rischia capitale proprio non trova sostegno, ma si vede applicare tributi a prescindere da ogni risultato. Così si rafforza una visione dell’ordinamento in cui la proprietà diventa un fatto puramente nominale, costoso, soggetto a vincoli, ma privo di autonomia.
Il punto più delicato, però, resta quello concettuale. Si afferma che ciò che conta è la disponibilità del bene, non il suo utilizzo. Ma questa visione ignora un fatto essenziale: la proprietà privata, in un ordinamento sano, non è mai solo una questione di titolarità astratta. È anche e soprattutto un diritto a decidere come, quando e se impiegare ciò che si possiede. È un diritto di scelta, anche di non agire, anche di attendere. Se ogni attesa viene penalizzata, se ogni stasi è sospetta, se ogni ritardo è tassato, allora quel diritto perde senso.
Chi costruisce e attende condizioni favorevoli per vendere, esercita una forma di prudenza economica, di lungimiranza. Ma lo Stato, anziché rispettare questa strategia, la punisce. Si richiede tributo per un bene che non ha ancora prodotto nulla. In questo modo si trasforma la tassazione in una forma di pressione, di stimolo coatto, di guida eterodiretta delle scelte economiche. Il diritto di proprietà, svuotato della sua discrezionalità, si trasforma in mera registrazione catastale soggetta a imposizione. Il risultato finale non è altro che l’arretramento silenzioso della libertà.
E quando la libertà arretra, il sistema diventa più povero, più rigido, più iniquo. Non serve evocare dottrine, basta osservare gli effetti: meno iniziativa, più immobilismo, meno costruzioni, più stallo. E uno Stato che tassa ciò che non produce, finisce per impoverire anche sé stesso.
