Il 'Grande Gatsby', cent'anni dopo. Il romanzo eterno contro invidia sociale e protezionismo
Diritto e libertà

Alcuni giorni fa ha raggiunto il primo centenario dalla pubblicazione Il Grande Gatsby, il capolavoro letterario di Francis Scott Fitzgerald, apparso per la prima volta a New York il 10 aprile 1925. Una ricorrenza importante, ma anche un’occasione per andare oltre la semplice celebrazione culturale e interrogarsi sul significato più profondo di un’opera che continua a parlare al presente con una forza sorprendente.
Il romanzo non è solo la storia di un amore tragico o di un’epoca scintillante. È, soprattutto, un inno alla libertà individuale, un manifesto contro ogni forma di interventismo statale, un atto di accusa sottile e letterario contro l’invidia sociale e il protezionismo che ancora oggi caratterizzano tanta parte della cultura occidentale.
In tale contesto, Jay Gatsby non è un semplice arrampicatore sociale. È l’uomo che si fa da solo. L’individuo che non chiede nulla, non pretende nulla, non rivendica nulla dallo Stato. È colui che insegue il sogno americano con i propri mezzi, consapevole che ogni risultato sarà frutto esclusivamente del proprio rischio, del proprio merito, della propria determinazione.
La sua ricchezza nasce — paradossalmente — proprio grazie al proibizionismo, quella politica pubblica che intendeva vietare la produzione e il commercio di alcolici per proteggere l’individuo da sé stesso. Fu un fallimento storico: invece di eliminare i comportamenti indesiderati, il proibizionismo generò il mercato nero, arricchì i criminali, alimentò la corruzione e rese indistinguibile la linea di confine tra imprenditoria e illegalità.
La lezione che arriva da Il Grande Gatsby è chiara: ogni intervento dello Stato che pretende di modellare i comportamenti individuali o di regolare i mercati oltre misura genera inevitabilmente conseguenze negative. Rende l’economia meno libera, la società meno responsabile, i cittadini più dipendenti da regole esterne piuttosto che dalle proprie scelte consapevoli.
A distanza di cento anni, questa lezione è quanto mai attuale. Viviamo in un’epoca in cui il proibizionismo ritorna sotto forme nuove e apparentemente più sofisticate. Non si vieta più solo l’alcol, ma si pretende di orientare i consumi, limitare le scelte alimentari, tassare gli stili di vita, bloccare la libera impresa in nome di presunti interessi superiori. Si diffida della ricchezza, si demonizza il profitto, si esaltano sussidi e assistenzialismo come unica risposta ai problemi sociali.
Ma ogni politica protezionistica o proibizionista produce sempre lo stesso esito: perdita di libertà, distruzione di ricchezza, creazione di nuovi privilegi per pochi e danni collettivi per la maggior parte dei cittadini. È quanto accadde durante gli anni Venti e Trenta negli Stati Uniti, quando il proibizionismo si accompagnò a una serie di politiche economiche fallimentari che condussero alla Grande Depressione. E non fu il capitalismo a generare quella crisi, come ha ben spiegato Murray N. Rothbard, ma l’interventismo sistematico dello Stato, le politiche espansive della Federal Reserve, il protezionismo commerciale e l’illusione che si possa vivere al riparo dal rischio grazie alla burocrazia.
Rileggere oggi l’opera di Fitzgerald significa allora compiere un gesto di ribellione intellettuale. Significa ricordare che la libertà è un esercizio difficile, esposto al rischio e all’incertezza, ma che solo nella libertà l’individuo può realizzare pienamente sé stesso. Il protagonista è un personaggio tragico, ma non per la sua ricchezza o per i suoi eccessi. È tragico perché incarna fino in fondo l’idea di un uomo che non si arrende alla realtà imposta, che non chiede nulla, che vuole essere artefice del proprio destino.
In un mondo che sembra aver smarrito il senso della responsabilità personale e della libertà come valore supremo, il centenario de Il Grande Gatsby è un’occasione preziosa per riscoprire una visione più coraggiosa e meno conformista della società. Una società in cui il successo individuale non è visto come una colpa, ma come un esempio. In cui l’economia non è diretta dallo Stato, ma dalla creatività degli uomini liberi.
Difendere questa idea di libertà non è solo un esercizio culturale. È un dovere civile, politico, umano. Perché senza libertà non esiste progresso, non esiste ricchezza, non esiste futuro. Esiste solo la mediocrità garantita, la stagnazione assistita, l’appiattimento burocratico.
Il sogno americano raccontato dal grande scrittore dell’età del jazz non è morto. È vivo ovunque ci sia un uomo disposto a non chiedere nulla allo Stato e a costruire tutto da sé. In un’epoca di nuovi proibizionismi, di protezionismi ricorrenti e di vecchie illusioni stataliste, rileggere il libro icona dei ruggenti anni Venti significa scegliere da che parte stare. Dalla parte della libertà. Sempre.
