Sudan, la guerra peggiore di cui nessuno parla
Diritto e libertà
L'Economist della prima settimana di settembre ha dedicato la copertina al conflitto in Sudan, diventato probabilmente il più spaventoso e sanguinario al mondo. Senza la copertura mediatica che meriterebbe, per dramma umanitario e risvolti internazionali, la guerra civile è scoppiata nella capitale Khartum il 15 aprile 2023, sotto forma di lotta di potere tra due generali.
Il capo di Stato provvisorio, il generale Abdel Fattah al-Burhan, guida l’esercito regolare, le Forze Armate Sudanesi (SAF). Quello che era il suo vice e oggi principale rivale, Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemedti” (piccolo Maometto), coordina le Forze di Supporto Rapido (RSF), organizzazione paramilitare emersa dal conflitto nella regione del Darfur dei primi anni 2000, la quale nel tempo ha acquisito sempre più potere.
Le radici del conflitto risalgono nel tentativo del dittatore Omar al-Bashīr di difendersi da operazioni golpiste: l’idea del sovrano era quella di bilanciare la forza dell’esercito sudanese, attribuendo maggiori poteri alle RSF, dando così vita a un contrappeso anti-rovesciamento. Il progetto finì male per al-Bashīr: i due comandanti si unirono, realizzando insieme un colpo di Stato nell'aprile 2019, ponendo fine a una dittatura che durava da 30 anni.
La destituzione del dittatore fu vista di buon occhio sia dalla popolazione locale che dalla comunità internazionale, nella speranza della nascita di un esecutivo civil-militare di transizione, che avrebbe fatto da apripista ad un governo democratico. Il potere condiviso nel Consiglio sovrano, però, non durò a lungo. La componente civile fu rapidamente superata con un nuovo colpo di stato militare nel '21, quando i due generali si accordarono nuovamente per guidare insieme il Paese. La pressione internazionale che li esortava a indire libere elezioni e rinunciare al controllo dell'economia non produsse risultati. Sorsero invece le prime forti tensioni, che raggiunsero l'acme nell'aprile '23, appunto, principalmente a causa delle controversie sul futuro della leadership militare e sul reinserimento dei paramilitari delle RSF nell'esercito regolare.
Il Sudan, dal 1956, anno della sua indipendenza, ha vissuto 15 colpi di stato e altrettanti scontri interni. Terzo paese più grande dell’Africa, dopo aver ottenuto l'autonomia dagli inglesi non è passato nemmeno un decennio senza guerre intestine: le regioni del sud - a maggioranza cristiana - divennero indipendenti già nel 1972, ma gli scontri armati ripresero nel 1983, culminando nell’indipendenza del Sud Sudan nel 2011, solo dopo milioni di sfollati e quasi due milioni di morti. Nonostante questa indipendenza non c’è alcuna pace, rimanendo i conflitti una costante.
Nel 2003 scoppiò una guerra tra varie etnie nel Darfur (nell’ovest del Sudan, tra il 2003 e il 2005, sono state uccise circa 200.000 persone, appartenenti alle tribù Fūr, Masaliti e Zaghawa), che continua ininterrotta. Il conflitto attuale, però, presenta caratteristiche che lo distinguono per gravità dei danni sulla popolazione civile. "Nessuno dei due schieramenti - spiega l’Economist - ha un obiettivo ideologico o un’identità etnica monolitica. Entrambi sono comandati da signori della guerra senza scrupoli che lottano per il controllo dello stato e del loro bottino". L’esercito sudanese, scarsamente equipaggiato e composto in buona parte da soldati provenienti dalle regioni più marginalizzate del paese, è diretto da un gruppo di generali del nord, i quali portano avanti una discriminazione storica.
La retorica ha giocato una funzione cruciale, con una propaganda che dipinge le FSR come milizie straniere, provenienti da Niger e Mali, nel tentativo di alimentare spaccature. Si tratta di una guerra frutto di un mancato e reale cambiamento dopo il trentennio dittatoriale, dove il controllo resta nelle mani dei militari e dei Fratelli Musulmani, mentre la promessa di consegnare alla giustizia al-Bashīr e gli altri responsabili rimane disattesa. Oltre ad essere duello per il potere, è importante sottolineare come il conflitto si sviluppi su molteplici livelli, ricalcando anche il riflesso di un equilibrio fragile in tutta la regione araba.
Il conflitto accresce infatti interessi regionali e stranieri più ampi: può essere definita una proxy war degli stati medio orientali, con una caratterizzazione in senso internazionalmente esteso. Per tanti paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, il paese subsahariano rappresenta un vettore espansionistico dalla Penisola Arabica all’Africa. Gli Emirati Arabi Uniti, vicini alle RSF, sono l’attore straniero che ha maggiormente investito nella guerra. Per gli Emirati Khartum è fondamentale per il raggiungimento dell'egemonia politico-economica in Africa e in Medio Oriente: il sostegno alle RSF al fine di minare la transizione democratica, spaventati dalla vicinanza tra al-Buhran e Fratellanza Musulmana, risale già al 2019.
Abu Dhabi è inoltre il principale importatore di oro dal Sudan e ha piani onerosissimi per sviluppare porti lungo la costa sudanese. L’altro paese che ha avuto un ruolo nel sabotaggio della transizione democratica del 2019 è l'Egitto. Il Cairo, infatti, teme egualmente il processo di democratizzazione, in una possibile dinamica simile a quella delle Primavere Arabe del 2011. Ciononostante, per l’Egitto il prolungamento del conflitto in Sudan significa avere un altro vicino in guerra, dopo Libia e Israele, e dunque un’ulteriore crisi umanitaria che si ripropone ai suoi confini.
Tornando ai membri del Consiglio di cooperazione del Golfo, l’altro grande protagonista è l'Arabia Saudita. Da aprile 2023 svolge un ruolo di equilibrio, avendo ospitato i falliti colloqui SAF-RSF a Gedda nel maggio dello scorso anno. Tuttavia, poiché al-Burhan gode di una maggiore legittimità internazionale, il Regno si è orientato a sostenerlo, scontrandosi così con Abu Dhabi. I due Paesi del Golfo competono sul piano geostrategico: ciò ha portato all’allineamento con fazioni rivali (Abu Dhabi con Hemedti e Ryhad con al-Burhan) molto prima dello scoppio del conflitto. Inoltre, non è da sottovalutare il coinvolgimento dell'Iran nella guerra. Le relazioni con Teheran sono ricominciate dopo la rottura del 2016, quando si erano accentuate le tensioni tra Arabia Saudita e Iran. Teheran è sempre più isolata nella propria regione, ma gli interessi geopolitici ed economici nell'espandere la propria influenza in Sudan, come l’accesso al Mar Rosso, restano vivi.
La posizione del Sudan è infatti quanto di più strategico: la sua costa di 800 km e la vicinanza al canale di Suez, snodo fondamentale del commercio globale, ha attirato l'interesse di altri soggetti, come ad esempio la Russia. Proprio con la Russia si sono sviluppati rapporti piuttosto stretti, in particolare da parte delle RSF con Wagner, la milizia privata dello scomparso Evgenij Prigozin, molto presente in Africa. Nonostante i crimini e i soprusi compiuti, SAF e RSF continuano entrambi a promettere ai sudanesi di "stabilire le basi della pace e della democrazia" tramite libere elezioni.
Secondo alcuni analisti intervistati dal Financial Times, i colloqui di pace sono complessi soprattutto perché al-Buhran, sempre più debole, non è nella posizione di negoziare. L’Unione Africana ha creato un Gruppo di alto livello sul Sudan, mentre gli Stati Uniti hanno nominato un inviato speciale, Tom Perriello. Tuttavia, coloro che davvero possono fare la differenza sono i paesi della Penisola Arabica, i quali, come detto, non sembrano aver interesse alla risoluzione del conflitto e nella transizione democratica del Paese. "Sono gli islamisti a detenere il potere assoluto ormai", spiega un diplomatico straniero. Dal canto loro, "le RSF sono un’accozzaglia di bande criminali che si dedicano a rubare, massacrare e stuprare", afferma Amjed Farid, che ha fatto parte dello staff dell’ex primo ministro sudanese Hamdok. Il generalizzato silenzio sul conflitto in corso è reso possibile dalla mancanza di dati e trasparenza di fondo nel percorso della guerra.
Un'inchiesta che si è distinta dalle altre è stata quella del Washington Post, in collaborazione con Sky News, Le Monde e Lighthouse Reports, che ha raccolto video esclusivi dello scenario sudanese, mostrando in particolare il trattamento riservato dalle RSF alle popolazioni africane non arabe. Corpi mutilati e martoriati con mani legate, ammucchiati in fosse comuni, donne stuprate e torturate per divertimento. Immagini rare, ma che rappresentano quello che è l’orrore quotidiano da quasi 700 giorni: nel Darfur è tornata la pulizia etnica dei miliziani arabi affiliati alle RSF contro i civili di etnia africana, come i Fūr e gli Zaghawa.
Anche l'esercito regolare è accusato di aver commesso abusi di natura etnica, ma per le associazioni che si occupano di diritti umani i responsabili della maggior parte delle atrocità sono le RSF. Molti dei sopravvissuti al massacro dei video hanno dichiarato che i paramilitari chiamavano i civili "abd", schiavo, insulto che risale ai tempi in cui gli arabi schiavizzavano appunto i membri delle tribù nere del Sudan. Nonostante si tratti di uno dei primi eventi del ventunesimo secolo considerato genocidio da parte di molti studiosi - l’RSF è accusata in modo credibile di genocidio - il conflitto sembra davvero poco presente sui radar internazionali.
150.000 i morti finora accertati (con numeri reali presumibilmente notevolmente superiori), continui crimini contro l'umanità, dove la mancanza di immagini contribuisce a ridurne la risonanza, oltre al fattore sì cinico ma fisiologico di una minore attenzione alle guerre più lontane. Che però esistono: circa 25 milioni di persone - metà popolazione sudanese - sono considerate a rischio carestia secondo le Nazioni Unite, con la paura che questa superi nelle dimensioni addirittura quella etiope degli anni '80. Si stima che più di 12 milioni di persone abbiano dovuto abbandonare le loro case, di cui circa la metà sono bambini, come affermato dal direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità Ghebreyesus. Più di 2 milioni di persone sono fuggite verso i paesi limitrofi, tra cui 600.000 rifugiati solo in Ciad nell’ultimo anno: siamo davanti alla più grande crisi di sfollamento a livello mondiale.