L’Euromaidan a Tbilisi. Noi siamo Georgia, noi siamo Europa
Diritto e libertà

Le proteste di piazza georgiane che si susseguono da settimane danno una manifestazione concreta della forza che può generare la mobilitazione della società civile per obiettivi di libertà politica: i georgiani, come gli ucraini, guardano all'Europa e alla libertà, tentando di emanciparsi dall'influenza russa.
Si tratta delle proteste più grandi che si siano mai viste in Georgia dal 1991, cioè nei 33 anni di indipendenza post-sovietica: più dell'80% della popolazione è a favore dell'ingresso nell'Ue. Un primo elemento di rilievo che emerge dalle immagini delle folle nonviolente di Tbilisi è come, tra le centinaia di migliaia di persone che sventolano assieme la bandiera della Georgia e quella dell'Unione, la gran parte sia composta da giovani.
Le nuove generazioni sono il vero protagonista di questa rivoluzione popolare: la Georgia è diventata lo Stato preferito dai ventenni russi che sono scappati dal Paese dopo l'invasione dell'Ucraina, i quali hanno finito per costituire quasi il 10% della popolazione della capitale. La forza di Tbilisi ricorda davvero molto quella ucraina di Euromaidan di fine 2013, anche e forse soprattutto per questo aspetto generazionale.
Televisioni e grandi quotidiani del mondo libero (almeno a livello nazionale, italiano) stanno forse non dando il giusto rilievo a un evento in qualche maniera epocale, continuando a commettere lo stesso errore, trascurando cioè il desiderio dei popoli delle ex repubbliche sovietiche e dei paesi del fu Patto di Varsavia di avvicinarsi ai valori europei fondati su democrazia liberale e stato di diritto, rigettando le odierne ambizioni imperialiste del Cremlino.
Ma per cosa si protesta, concretamente, in Georgia? le manifestazioni sono contro la cosiddetta "foreign agents law", secondo cui le ONG finanziate dall'estero per almeno il 20% diventerebbero a tutti gli effetti agenti stranieri. Il parlamento georgiano ha approvato in terza lettura tale proposta di legge, che prende il nome da una molto simile varata dalla Duma di Mosca nel 2012. Richiedendo a qualsiasi tipo di organizzazione di dare conto dei finanziamenti ricevuti dall’estero, questa normativa viene interpretata come un mezzo di repressione interna, oltre che un simbolo della vicinanza alla Russia. L'obiettivo è limitare le attività dei media indipendenti e di quelle organizzazioni che si occupano di monitoraggio di elezioni e quadro del sistema-paese.
I georgiani sono scesi in massa per difendere i propri diritti potenzialmente danneggiati, ma anche e soprattutto per tutelare il loro futuro europeo. Infatti, questa legge liberticida potrebbe bloccare le possibilità della Georgia di entrare in Ue, dopo che dal dicembre 2023 ha acquisito lo status di candidato e avviato una serie di riforme per garantire diritti civili e sociali a questo fine. Bruxelles, concedendo lo status di Paese candidato, ha allegato dodici condizioni che il governo deve implementare.
Nel novembre del 2024 la Commissione valuterà il grado di realizzazione delle stesse, per decidere se aprire o meno i negoziati di adesione, così come già fatto con Ucraina e Moldavia nello scorso dicembre. Se la legge venisse approvata definitivamente, essa andrebbe chiaramente in contrasto con le richieste di Bruxelles, violando il diritto internazionale e facendo saltare non solo il via libera per l’inizio dei negoziati di adesione, ma comportando addirittura il ritiro dello status di Paese candidato.
Quindi la protesta è certamente per la sostanza di questa legge, ma in particolare è per l'orizzonte del popolo georgiano: l’integrazione europea in Europa. “Georgian Dream”, il partito di governo, è sempre stato legato a Mosca, ma i vari esponenti hanno nascosto e insabbiato tali rapporti. Il popolo georgiano, più volte dichiaratosi in grandissima parte a favore dell’integrazione euroatlantica, non sosterrebbe mai un partito filorusso. Per questo, in maniera del tutto strumentale, Sogno Georgiano non si è mai schierato apertamente con il Cremlino. Ha al contrario perseguito una comunicazione retorica e di immaginario simil-europeista, di pura facciata, accrescendo contemporaneamente i rapporti economici e culturali con Mosca.
L'influenza è molto forte, e si sostanzia in una relazione quasi personale tra i vari membri, ancor più che sul fronte del posizionamento strategico. Tutto ciò è stato difficile da percepire per la cittadinanza, che non ha compreso fino in fondo quanto il governo fosse in realtà lontano dall'Europa. Più facile è stato capirlo ora, quando la Russia ha di fatto richiesto un allineamento politico più esplicito. Ed è qui che si inserisce la legge sugli agenti stranieri: per l'esecutivo, politicamente parlando, non avrebbe avuto senso riproporre il disegno a cinque mesi dalle elezioni, se non sotto una notevole spinta ed esigenza esterna.
Un aspetto interessante è poi che la Georgia ha il progetto di perseguire l'integrazione ed entrare nell'Unione Europea scritto nella sua Costituzione, all'articolo 78. La promozione della norma viola di fatto perciò la stessa Costituzione. Bisogna poi precisare che la Georgia, prima ancora che una adesione difensiva di tipo militare (alla Nato), chiede una vicinanza politico-culturale (all'Unione). Lo stesso 2013-2014 di rivolta in Ucraina era sorto sulle ceneri della mancata firma di accordo tra cooperazione tra il Paese e l'Ue, e cioè sul desiderio delle persone di abbracciare il mondo liberaldemocratico occidentale.
L'aspetto militare diviene in questo contesto una derivazione, frutto della vicinanza al mondo libero, e non quello più rilevante a livello generale. Per la Russia tale meccanismo è una minaccia, perché democrazie confinanti possono diventare una prospettiva per lo stesso popolo russo. Come accennato, a ottobre ci sono le elezioni, che diventeranno un referendum su Sogno Georgiano e dunque sull'Europa. All'interno delle stesse istituzioni georgiane esiste un contrasto, tra presidente (che ha già posto il veto sul disegno di legge) e governo (che ha però la maggioranza parlamentare per superarlo).
Il veto della presidente Zourabichvili sarà quindi con buone probabilità superato da un nuovo voto in Parlamento. È già la seconda volta che la “legge russa” viene proposta. Il primo tentativo risale a circa un anno fa, quando le proteste di piazza costrinsero l’esecutivo a ritirarla. È importante notare inoltre che finora le manifestazioni di piazza non avevano mai chiesto le dimissioni del governo, ma soltanto il ritiro della proposta di legge. Qui risiede un altro parallelo con Euromaidan, quando i manifestanti, nelle fasi iniziali, chiedevano esclusivamente all’allora presidente Janukovich di firmare gli accordi di associazione con l’Unione Europea. In ogni caso, le prossime tornate elettorali, legislative e presidenziali, saranno fondamentali per capire se Tbilisi potrà avvicinarsi davvero a Bruxelles o finire piuttosto nelle mani di Putin.
La Georgia si trova a un bivio tra il modello Bielorussia, paese sotto il controllo del Cremlino (dove pure è presente una opposizione interna molto solida), e la strada per entrare in Europa: un ruolo decisivo giocheranno le stesse istituzioni europee, con il portato del loro soft power. In Ucraina, nel gennaio del 2014, la visita dell’allora Alto rappresentante Ue a Maidan fu un'iniezione di fiducia per i manifestanti, conducendo alla caduta del filorusso Yanukovich il mese successivo. I leader nazionali si sono dimostrati fino ad oggi timidi nel supportare le proteste georgiane, e le esitazioni giocano a favore di Putin.
Quella che scende in piazza a Tbilisi e resiste a Kyjiv è l’Europa nella sua essenza, la definizione tangibile di Occidente libero. Non si possono sottovalutare, anzi si devono tutelare, aspirazioni ed esigenze delle società civili, che hanno la capacità di agire da motore per il cambiamento. Il loro ruolo sarà decisivo per una stabilità internazionale che auspicabilmente possa andare oltre l'Europa, come dimostrano, dimostreranno o potrebbero dimostrare dinamiche interne in tutt'altri teatri, dal coraggio della società civile iraniana passando per l'esigenza di un movimento popolare che cresca dal basso nello scenario palestinese.
