obama clinton

Tre buoi pascolavano sempre in compagnia tra loro. Un leone era bramoso di mangiarseli, ma per la loro consuetudine amicale ne era impedito. Allora, usando la calunnia, riuscì a separarli l’uno dall’altro con menzogne ingannevoli e, in seguito, trovandoli ciascuno isolato dagli altri, li divorò uno alla volta. Da “I tre buoi e il leone”, in Esopo, Favole, Newton Compton, Roma 2012, trad. di Mario Giammarco.

 

Di fronte a certi eventi la risposta dovrebbe essere l’unità. Unità nella diversità, ovviamente, ma sempre unità. Si possono avere diverse idee sul terrorismo e su come combatterlo, ma di fronte a un attacco terroristico come quello avvenuto nello Sri Lanka, dovrebbe essere naturale tendere all’unità, anche con persone molto diverse da me. Chi dovrebbe unirsi? Chi ritiene che la violenza politica non sia compatibile con la società in cui vogliamo vivere.

Stupisce che proprio in Italia, paese martire della violenza politica, dallo squadrismo fascista alla mafia fino al terrorismo rosso e nero, manchi questa sensibilità. Da una parte, dunque, la violenza politica, dall’altra parte, invece, la “comunità-paese”. Uno dei modi migliori per fondare le basi di una solidarietà che superi le legittime differenze è stabilire un linguaggio comune: definire cose e persone secondo parametri condivisi.

Questo è il “politically correct”, strumento di libertà, autoregolamentazione della “comunità”, parente stretto della buona educazione. In Europa c’è sempre più gente insofferente al politicamente corretto, forse perché abbiamo conosciuto regimi autocratici e totalitari che imponevano, tra le altre cose anche un certo linguaggio. All’inizio di “Una giornata particolare” di Ettore Scola, ambientato nel 1938, quando Sofia Loren dice al figlio: «Vieni qui che ti sistemo il pon-pon», risponde il marito in tenuta fascista: «Ma cosa sono queste parole straniere: italianizza! Di’ “pompòno”!» Anche se il marito voleva parlare politicamente corretto, cioè come voleva la politica del tempo, non è questo il “politically correct”.

Conoscere le persone e le cose di cui si parla e parlarne di conseguenza: questo è il “politically correct. Significa non chiamare una persona di origine africana “negro”, perché quel termine non è una parola di libertà, ma è appunto “denigratorio”, come ci ricorda la nostra bella lingua. Significa saper distinguere, perché se definisco bene cose e persone, al momento del bisogno, la “comunità” può unirsi per fronteggiare il nemico comune, che può essere il terrorismo, ma anche l’ignoranza, l’indifferenza, lo spreco di risorse.

In questi giorni, diverse persone e vari media, hanno usato strumentalmente i massacri in Sri Lanka per attaccare il “politically correct” e, nel contempo, alcuni esponenti della cultura liberal. Invece di unire la comunità contro il nemico comune, alcune persone con responsabilità precise nei confronti della stessa comunità hanno montato una polemica sull’espressione “Easter worshippers” usata nei tweet di condoglianze di Hillary Clinton e Barack Obama, che avrebbero dovuto esplicitare l’appartenenza cristiana delle vittime. Secondo questi, Clinton e Obama non hanno scritto “Christian” per colpa del politicamente corretto. Si sono addirittura inventati la traduzione “adoratori di Pasqua” (facendomi tornare alla mente, tra l’altro, bei ricordi di gioventù, quando tentavo eroicamente di convincere la professoressa di latino della bontà della mia astrusa traduzione).

Chiunque frequenti regolarmente una chiesa, ascoltando attentamente i discorsi di Clinton e Obama può capire, da stile, struttura e lessico, che i due non siano solo cristiani nominalmente, ma che siano in effetti due “Church-goer”. Ma non importa. Per certe persone è più importante sfruttare la minima occasione, anche la più macabra, per tirare acqua al proprio mulino. Tra parentesi, in un tweet più o meno contemporaneo a quelli di Clinton e Obama, neanche Donald Trump scrive “Christian” per definire le vittime, ma usa un generico “people”, ma i fustigatori nostrani del “politically correct” si son ben guardati dal criticare anche Trump.

La verità è che di fronte ai massacri in Sri Lanka, Clinton, Obama e Trump si ritengono sulla stessa barca o almeno sanno di avere la responsabilità di testimoniare alla “community”: “United we stand”. Rifiutare la pratica del politicamente corretto, ha gravi conseguenze, tra le quali, ad esempio, la crisi della satira. Quando, infatti, la scorrettezza del linguaggio e la distorsione dei fatti diventano comuni pratiche della classe politica, significa che la democrazia è in crisi: la confusione tra satira e realtà, come l’incontro tra materia e antimateria, porta alla distruzione.

Ma la grave conseguenza, a breve termine, che abbiamo visto in questi giorni è la perdita di sensibilità umana. Sacrificare il sangue innocente delle vittime dello Sri Lanka sull’altare della propria agenda politica è il gioco di chi pratica la violenza politica. Che queste sterili polemiche siano state create vicino alla data del 25 aprile, festa della vittoria della libertà sul regime fascista fondato sulla violenza politica, è una coincidenza che fa riflettere.