Colonna monumento

La modalità comunicativa con la quale si va discutendo e comunicando alla "gente” il risultato elettorale si rivolge, come ormai è consuetudine, alla “pancia” e non alla “testa”: le pulsioni si contrappongono al ragionamento ed alla comprensione della realtà. Allora, ora provo a parlare alla “testa”

Un preambolo semantico. Per mezzo delle elezioni non si “elegge” un governo, ma un parlamento: si eleggono deputati e senatori, non un Presidente del Consiglio né ministri. A causa di una comunicazione e di una prassi discorsiva ormai abituali, questo profilo della nostra Costituzione è del tutto ignorato. Basti pensare alla litania degli anni recenti: “basta con governi non eletti dal popolo”. Questa sensazione è corroborata dall’uso di una parola, anch’essa entrata nell’uso mediatico ormai da tempo. Meglio, dal “tempo” della avventura politica di Berlusconi: si tratta della parola “Premier” e della espressione “candidato Premier”.

Il termine Premier è proprio di una diversa struttura costituzionale, il premierato appunto, il quale prevede un diverso modello elettorale, legato ad un sistema maggioritario. Utilizzarlo nel caso italiano significa deformare la nostra struttura costituzionale ed indurre nel senso comune l’idea che si elegge direttamente un governo e, soprattutto, una persona a guidarlo. La figura del Presidente del Consiglio, propria della Costituzione italiana, ha una sua specifica configurazione giuridica che è diversa sia dal Premier britannico sia dal Cancelliere tedesco. Così come è diversa dal “Capo del governo”, proprio dell’esperienza fascista. Basti qui ricordare un dettaglio formale, ma politicamente decisivo: la modifica dello Statuto Albertino introdotta dal fascismo, riguardante il giuramento dei ministri. Non più nelle mani del Re, ma nelle mani di Benito Mussolini; con essa si realizzò quella forma di dipendenza politica da una persona, che dette luogo alla figura giuridica del “Capo del Governo”.

A proposito della parola “Capo”. Si va affermando, nella attuale comunicazione mediatico-politica, una espressione finora inedita: “Capo politico”, sicuramente legata all’accentuarsi di una visione personalistica, movimentistica e post-partitica della politica. Il nome del “Capo”, incluso nel simbolo del partito, ne è la manifestazione. Anche in questo caso tutto cominciò con Berlusconi. In definitiva, l’espressione esatta “Segretario del partito” appare troppo tecnica e poco suggestiva in un’epoca in cui si comunica più alla “pancia” che alla “testa”; ma attenzione! La parola “Capo”, evoca la figura di una persona fisica che sta alla testa di un manipolo, di una schiera di persone, di un esercito; evoca, cioè, l’idea di una “guida”. Termine, quest’ultimo, che nella esperienza politica italiana si è tradotto nella parola “Duce” e in quella tedesca in quella identica di Führer. Ancora, al termine “guida” deve associarsi quello di “obbedienza”: se il “capo” che guida non ottiene obbedienza, infatti, non può guidare e non è un “capo”.

Non c’è da stupirsi, allora, se alla dialettica interna, tipica dei pertiti del ‘900, si è sostituita di recente l’alternativa: o obbedisci o te ne vai. Sottolineo questi aspetti linguistici utilizzati con faciloneria dalla comunicazione mediatica, perché non solo sono gravemente deformanti della realtà costituzionale italiana, ma soprattutto inducono nella persona comune (che non è necessariamente un esperto di diritto costituzionale) una visione della politica fatta più di sensazioni e pulsioni che non di ragionamento, con conseguenze ed effetti reali pericolosi. Ognuno di noi, infatti, decide, cioè: in questo caso vota, in base al modo in cui rappresenta a se stesso la realtà; ed il modo in cui se la rappresenta dipende dalla rappresentazione allestita dalle parole e dalle immagini che riceve dal mondo mediatico che lo circonda. Poi alcuni usano anche la testa, altri reagiscono con la pancia.

Ed ora i risultati di queste elezioni. Le percentuali ricevute dai partiti devono scontare un dato importante: il 30% degli astenuti. Allora i 5 Stelle, come partito singolo, hanno sì ottenuto il 32%, ma sul 70% dei votanti. Quindi la loro rappresentatività è il 32% del 70%. Analoga considerazione vale per la Coalizione di centro-destra e, a maggior ragione, per i singoli partiti che ne fanno parte.

La questione “Salvini”. Nonostante la legge elettorale precedesse come soggetto eleggibile anche una coalizione come tale, cioè come soggetto unitario, e quindi la percentuale rappresentativa ai fini del risultato è quella della coalizione nel suo insieme, nella prassi comunicativa, invece, si è diffusa la sensazione che la Lega come partito, meglio “Salvini”, abbia vinto le elezioni. E’ quest’ultimo, infatti, che si è imposto, sulla scena pubblica, come l’antagonista di Di Maio. Nuova distorsione fatta per la “pancia” e non per la “testa”. Come partito singolo, infatti, la Lega ha ottenuto più del 17%, ma meno del 18 (sempre del 70% dei votanti). Come singolo partito, quindi, è inferiore al PD, che pure viene divulgato come il grande perdente. E certamente lo è stato, se si confronta il risultato attuale con i precedenti. Ma resta, come singolo partito, il secondo.

Allora, chi ha vinto le elezioni nell’immaginario collettivo? La “Coalizione di centro destra”, la Lega o il Movimento 5 Stelle? E soprattutto, mi riferisco a Salvini, non si può far valere prima e subito dopo l’esito elettorale l’argomento “coalizione”, per rivendicare il primato, e dopo muoversi come partito singolo, rivendicando come tale incarichi istituzionali e di governo. Ma se come partito singolo la Lega è in percentuale inferiore al PD, non si capisce perché la personalizzazione mediatica corrobori nella pancia della gente la sensazione che sulla scena pubblica, italiana ed internazionale, Salvini sia l’unico interlocutore reale di Di Maio. Conseguenza, si insinua l’idea che la questione delle cariche istituzionali sia riducibile ad una trattativa tra loro due.

In una situazione del genere il PD diventa il soggetto debole, una sorta di don Abbondio tra due vasi di ferro. Infatti, se accettasse un governo con i 5 Stelle o con la “coalizione” a trazione leghista, questi indicherebbero nel PD il responsabile delle mancate riforme (di per sé impossibili), promesse allegramente in campagna elettorale. Se resta all’opposizione, i due (Salvini e Di Maio) non avranno interesse a trovare un accordo di governo per addossare alla “irresponsabilità” del PD il ricorso a nuove elezioni, avendo così tutto da guadagnare. Nei fatti diventa probabile che si verifichi una ulteriore deriva comunicativa in senso populistico, che condurrebbe ad una polarizzazione delle forze: Lega da una parte (Forza Italia e Berlusconi evaporerebbero: Berlusconi infatti è terrorizzato da un ritorno alle urne) e 5 Stelle dall’altra, con un ulteriore ridimensionamento del PD e della sinistra tradizionale in generale. Almeno questo è lo scenario che i due si immaginano e pensano sotto sotto di inseguire. Mi sbaglierò, ma mi sembra ragionevole sospettarlo.

Mattarella? Se affidasse ad una personalità esterna l’incarico di formare un governo “politico”, quest’ultimo diverrebbe, nella chiacchera comune, un nuovo governo non eletto dal popolo; una via possibile, allora, sarebbe un “governo di scopo” a termine, legato cioè al compimento di alcuni imprescindibili atti istituzionali, interni ed internazionali, e forse ad una, ancora una volta, nuova legge elettorale. I due lo accetterebbero? No, preferirebbero l’opzione “nuove elezioni”, per le ragioni sopra dette.

Resta alla fine di tutto una domanda: perché, visti i numeri e le percentuali esatte, tutto viene raccontato come se solo Salvini e Di Maio siano oggi i padroni del vapore? Una risposta forse c’è: perché nella comunicazione mediatica, nelle espressioni e nelle immagini che hanno impressionato il senso comune in questa campagna elettorale, ciò che ha fatto presa sono state 3 parole: Salvini, Di Maio, 5 Stelle. La “testa” è stata lasciata a riposo e con questa restano fuori i bisogni reali delle persone, la solitudine che le segna, la frantumazione individualistica della società, la perdita di ogni “credenza” nelle Istituzioni.