La Francia ha un rapporto sempre più complicato con l'Europa, l'UMP con il FN, e il PS con Hollande e con l'elettorato popolare. Questo il bilancio del voto del 25 maggio. Ma è troppo presto per suonare le campane a morto per il bipolarismo francese. Presidenzialismo e doppio turno salvaguardano la tenuta del sistema.

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Cosa è accaduto in Francia domenica 25 maggio 2014? È lecito parlare del Front National come primo partito del Paese? In definitiva quali sono le principali indicazioni contenute nel voto europeo dei cugini d'oltralpe?

Prima di tutto occorre sgomberare il campo da qualche semplificazione giornalistica eccessiva. Il Front National è stato senza dubbio il partito più votato e con quasi il 25% dei voti manderà 24 deputati a Strasburgo, contro i 20 dell'UMP e i 13 del PS. Dunque è corretto dire che il FN ha vinto questa tornata elettorale, mentre è azzardato parlare di FN primo partito di Francia. Infatti bisogna ricordare altri due dati importanti alla chiusura delle urne del 25 maggio.

Da un lato c'è l'astensionismo del 57% circa, in pratica 6 francesi su 10 hanno disertato le urne e di conseguenza qualsiasi risultato deve essere relativizzato. Dall'altro bisogna osservare il numero dei voti complessivi raccolti dalla lista FN. La cifra è di circa 4,7 milioni. Un netto aumento rispetto al primo turno delle legislative del 2012 (3, 5 milioni di voti ai quali sommare altri 900 mila circa di candidati di estrema destra non presentatisi però con etichetta FN), ma un sostanziale calo rispetto al 17,9% di Marine Le Pen alla presidenziale del 2012, pari a 6,4 milioni di voti. Dunque senza sottostimare l'impatto, anche simbolico, del FN primo partito, è necessario non cadere nell'errore di assolutizzare l'esito e finire per trarre conseguenze affrettate.

Detto questo sono almeno quattro le indicazioni che il voto offre in maniera piuttosto limpida.

Punto primo. La Francia conferma il suo difficile rapporto con il processo di integrazione europea, costante perlomeno dalla fine della Guerra fredda e dalla riunificazione tedesca. È giusto affermare che la crisi economica globale e quella dell'area euro hanno accentuato una più complessiva difficoltà transalpina di adattamento alla globalizzazione. L'altro dato da non trascurare è però la progressiva e sempre meno celabile difficoltà francese nell'accettare la perdita di leadership politica e di centralità geopolitica all'interno del processo di integrazione a favore di Berlino.

Da questo punto di vista lo sfondamento del FN del 2014 deve essere direttamente collegato al referendum su Maastricht del 1992 e a quello sul Trattato costituzionale europeo del 29 maggio 2005. Nel 1992 solo un coinvolgimento consistente dell'allora presidente Mitterrand garantì al "sì" un risicatissimo 51%. Nel 2005 la distanza tra elite politiche e una parte consistente del Paese è stata palesata dalla vittoria netta del "no", anche se le forze politiche che rappresentavano oltre il 90% dei deputati dell'Assemblée nationale (PS, UMP e UDF) si erano schierate per il "sì", con in prima linea leader del calibro di Sarkozy, Hollande e Bayrou, oltre al presidente Chirac. Di conseguenza nel voto FN del 25 maggio scorso, ma anche nel massiccio astensionismo, è iscritto un messaggio chiaro. Non tanto di euro-rigetto, quanto di insoddisfazione profonda per come si sta sviluppando l'integrazione europea.

Punto secondo. Il voto e il non voto di domenica sono il secondo tempo del "voto sanzione" che i francesi hanno cominciato ad indirizzare al Presidente a fine marzo con le elezioni municipali. Nei primi ventidue mesi di mandato, nonostante un livello di fiducia in costante calo sino a raggiungere l'odierno 18%, Hollande ha potuto godere di una lunga pausa elettorale. Ma quando i francesi hanno potuto esprimersi democraticamente, sono state batoste sonore. Questa europea è di portata storica se si pensa che con il 14% dei voti il PS ha fatto segnare il suo peggior risultato da quando il parlamento di Strasburgo si elegge a suffragio universale diretto (fino ad oggi il punto più basso si era toccato nel 1994, in piena fase di "fine Impero" mitterrandiano, con il 14,5%). Solo il 42% degli elettori di Hollande di due anni fa ha deciso di recarsi al voto.

Sempre più preoccupante è la sociologia del voto PS. Il partito "bobo" è oramai senza identità. Domenica scorsa hanno scelto il PS solo l'8% degli operai, il 16% degli impiegati e il 14% dei disoccupati. D'altra parte sono prima di tutto le fasce più deboli del Paese a rinfacciare al Presidente le sue promesse sull'aumento del potere d'acquisto, sulla diminuzione della disoccupazione e sulla rottura dell'austery del cosiddetto Merkozy. Se a questi insoddisfatti si aggiungono le classi medie sempre più tartassate dall'imposizione fiscale e un'indubbia difficoltà nell'esercizio della leadership presidenziale, il quadro di una presidenza al momento fallimentare è presto dipinto. Peraltro Hollande sembra avere sparato tutte le sue cartucce migliori all'indomani della debacle alle municipali, con il triplice cambio (al governo, alla guida del PS e nel delicato incarico di segretario generale della Presidenza della Repubblica). L'inversione di tendenza a livello di politica economica, con il lancio del "patto di responsabilità" è sul terreno. Come potrà pensare a questo punto di provare a risalire la china nel triennio di mandato che lo separa dalla presidenziale del 2017? Recenti rumors parlano addirittura di una rinuncia alla candidatura per un secondo mandato, eventualità mai verificatasi nella storia della V Repubblica.

Terzo punto. La crisi dell'UMP. Anche in questo caso le difficoltà dell'attuale principale partito di opposizione hanno radici che risalgono al dopo sconfitta del 2012. L'UMP è orfano di Nicolas Sarkozy e la lunga querelle tra Copé e Fillon per la gestione del post-sarkozismo non ha giovato all'immagine del partito post-gollista. Il voto municipale ha portato ossigeno, ma in questo caso l'UMP ha sfruttato il suo radicamento locale, che gli deriva proprio dalla tradizione gollista, e la debacle socialista. Il voto europeo ha evidenziato le due drammatiche carenze che lo caratterizzano: mancanza di una linea politica coerente e univoca e assenza di una leadership forte, credibile e aggregante. Sul mediocre risultato di domenica e su quella che è a tutti gli effetti una competizione con il FN per una parte consistente di elettorato, si è aggiunto l'esplodere dell'affaire del finanziamento della campagna presidenziale del 2012, in parte coperta da fatture gonfiate intestate al partito per consulenze effettuate dall'agenzia di comunicazione Bygmalion, fondata nel 2008 da due persone molto vicine a Jean-François Copé.

Le dimissioni dovute del segretario Copé aprono scenari incerti quanto pericolosi. Intanto il coinvolgimento, anche solo presunto, di Nicolas Sarkozy è sufficiente per fargli perdere l'aura di "salvatore della Patria" con la quale si descriveva un suo probabile ritorno sulla scena. In secondo luogo si apre una strana corsa per il nuovo segretario che si concluderà al congresso straordinario del prossimo ottobre. Strana dal momento che non si è ancora chiarito se il nuovo segretario potrà correre per la presidenza. A tutto ciò si aggiunge che nell'autunno 2016 l'UMP dovrà organizzare primarie aperte a militanti e simpatizzanti per scegliere il proprio candidato all'Eliseo. Infine si dovrà decidere quale linea politica adottare, in particolare nei riguardi del FN o meglio di molti dei temi di dibattito che il partito di Le Pen solleva. Se la corrente la Droite Forte di Peltier invita a non trascurare il messaggio che il Paese invia con il voto massiccio al FN, Alain Juppé (possibile candidato nel 2017) interpreta il voto del 25 maggio come la conferma di un necessario ritorno alla vocazione originaria dell'UMP (del quale lui peraltro fu fondatore) cioè l'alleanza tra la destra repubblicana e il centro.

Quarto ed ultimo punto. Nel risultato del FN c'è molto del lavoro svolto da Marine Le Pen, prima accanto al padre, ma soprattutto dal gennaio 2011, quando è divenuta leader dello stesso. Nonostante il proporzionale sia un sistema favorevole per i partiti non coalizzabili come il FN, le elezioni europee sono state in passato avare di soddisfazioni per il Front. Basti pensare che il risultato migliore è del 1989 con l'11,7%. Marine Le Pen ha lavorato sull'immagine del partito (candidati giovani, colti, mediaticamente conosciuti), sulla cosiddetta "banalizzazione" di temi come quello dell'immigrazione e della difesa dell'identità anche culturale del Paese e ha infine depurato il suo discorso da qualsiasi tendenza liberista (in economia), accentuando anzi le sfumature di sinistra, proprio alla ricerca del voto ex socialista.

Il voto del 25 maggio da questo punto di vista ha infine dimostrato che oramai l'opzione FN non è più solo e soltanto ascrivibile a dinamiche anti-sistema, ma è anche un voto a favore di alcune politiche (seppur radicali) e di un leader, Marine Le Pen. Si tratta dunque di una vittoria su tutta la linea. Allo stesso tempo, però, non bisogna accentuarne eccessivamente l'aspetto sistemico. Il 25 maggio si colloca in un trend senza dubbio positivo, avviato con la presidenziale del 2012 e proseguito con le già citate municipali di due mesi fa. Non dimentichiamo però che stiamo parlando di un partito che, al momento, può contare su dieci sindaci, 20 consiglieri generali, due deputati e nessun senatore, né dipartimenti, né regioni. A maggior ragione le prossime elezioni regionali del 2015 (cruciali anche perché dovrebbero essere le prime dopo la riforma territoriale voluta da Hollande per abolire i dipartimenti) saranno il vero e definitivo banco di prova per misurare le reali possibilità di Marine Le Pen nel 2017.

Mentre ci si affanna, forse troppo tempestivamente, ad organizzare il funerale del bipartitismo francese e a tratteggiare un ipotetico e strano sistema tripolare (UMP-PS-FN), abbastanza improbabile considerata la dinamica aggregante dell'elezione presidenziale diretta e del doppio turno con alta soglia di sbarramento, un dato è al momento certo. Il modello francese, complessivamente nelle sue articolazioni politiche, sociali ed economiche, ha subito l'ennesimo duro colpo dopo la "marea" FN. Grazie però alle sue istituzioni, e in particolare alla centralità dell'esecutivo rappresentato dalla coppia Presidente-Primo ministro, agli ampi poteri di cui dispone il Presidente, alla legittimazione che gli deriva dal voto diretto e agli effetti del maggioritario a doppio turno, il sistema ha retto. Si trova nelle sabbie mobili, ma perlomeno non è andato a fondo.

La questione ora è tutta politica. Se la coppia Hollande-Valls da una parte e la nuova leadership dell'UMP dall'altra riusciranno a sfidare il FN sui contenuti e ad invertire la rotta, per il Marine Le Pen la situazione si farà complicata. Altrimenti la presidenziale del 2017 rischia di sostituire, nell'immaginario collettivo, lo choc del 21 aprile 2002.