Le elezioni europee hanno rimescolato, forse come non mai, le carte delle appartenenze politiche. Esaurita definitivamente la forza "magnetica" delle polarizzazioni della guerra fredda, si sono aperti spazi per nuove identità politiche, più deboli e più liquide. A Roma come a Londra, a Parigi come a Berlino, ci dovremo tutti fare i conti.

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È nata la nuova Dc, hanno detto e scritto un po’ tutti, chi con fastidio, chi con rimpianto, dopo l’eclatante vittoria del Pd di Matteo Renzi alle elezioni europee. E in effetti l’ultimo partito ad aver raggiunto da solo, senza bisogno di alleanze e coalizioni, il 40 per cento dei consensi degli italiani era stata, nel 1958 proprio la Democrazia Cristiana di Amintore Fanfani.

Il paragone - non così peregrino, vista la provenienza culturale del presidente del Consiglio e la sua capacità di pescare consenso oltre steccati generazionali, sociali, geografici, ideologici che parevano fino a poco tempo fa difficilmente superabili - appare ancora più efficace se si considera che il grande avversario dei democratici, in questa tornata elettorale, non era più quel che resta del centrodestra berlusconiano, non era un polo “moderato” o “conservatore” ma un movimento di opposizione generalizzata “al sistema” che non ha ragioni di aspirare al governo del Paese (e che ha tenuto il suo comizio conclusivo a San Giovanni invocando il nome di Berlinguer, peraltro).

Inserendo, però, il voto italiano nel più ampio contesto europeo (d’altronde, si votava per l’Europa), l’evocazione della Balena Bianca e più in generale di quegli anni potrebbe rivelarsi qualcosa di più di una simpatica suggestione. Sessant’anni fa la dinamica che determinava, come un grande magnete, la distribuzione e i movimenti delle forze politiche italiane ed europee era il confronto tra Usa e Urss. Caduto il Muro di Berlino, la potenza di quella “scelta di campo” è andata via via scemando, aprendo spazi per nuove identità politiche, più deboli e più liquide proprio perché prive di un aggancio con grandi dinamiche storiche paragonabili alla faglia della guerra fredda.

In Italia a riempire il vuoto ci ha pensato Silvio Berlusconi, che anziché contribuire a disegnare nuove direttrici politiche (liberismo vs statalismo, federalismo vs nazionalismo, giusto per fare qualche esempio), ha scommesso al contrario sul congelamento del vecchio modello (il “Libro nero del comunismo” distribuito come gadget elettorale, lo spauracchio delle “toghe rosse”, la citazione della strategia togliattiana di occupazione dei gangli della società usata come refrain elettorale fin negli anni Duemila), identificandosi a tal punto con le contrapposizioni che avevano segnato la politica italiana per cinquant’anni da trasformarsi lui stesso nel nuovo “magnete” dal quale era necessariamente attratta la vita pubblica italiana. Una “scelta di campo” che però, non dipendendo più da fenomeni reali ma da una sorta di loro rievocazione scenica, ha trasformato Berlusconi nel nuovo “magnete” del confronto pubblico italiano, riducendo il dibattito nostrano a un grande reality show, isolato e avulso dai movimenti della storia.  

Ci ha pensato la crisi economica (ovvero gli effetti di una complessiva redistribuzione degli equilibri globali in un mondo multipolare) a reinserire, bruscamente, la politica italiana nel contesto globale. La diminuzione del benessere e i dubbi sulla tenuta dei sistemi istituzionali, sociali e politici che quel benessere avevano garantito per decenni ha aperto nuove faglie e risvegliato energie sopite: le nostalgie nazionaliste e le conseguenti pulsioni xenofobe, le utopie no-global e i miti anti-moderni (la No Tav, ad esempio), la rabbia generalizzata contro la casta dei politici e quella delle banche, l’evocazione del governo del popolo (anche nella sua versione online) come antidoto alla inefficienza delle istituzioni tradizionali.

Tutte cose non nuove e che però si credevano ormai minoritarie se non estinte, nella linda e pinta casa comunitaria. Invece i movimenti “anti-sistema”, sfruttando il vantaggio di non aver mai gestito il potere e di non avere dunque colpe da farsi perdonare, hanno saputo portare alla ribalta e cavalcare queste fratture. Ecco che viene messa in discussione la necessità stessa di un’Europa unita economicamente e politicamente; ecco che di fronte alla crisi dell’Occidente euro-atlantico si guarda con interesse vero Est (si tratta di forze politiche che non a caso si oppongono alla firma del patto commerciale con gli Usa e che molto spesso contano tra le loro file ammiratori più o meno espliciti di Putin); ecco che, nei casi più estremi, ci si interroga sull’utilità della democrazia rappresentativa per come l’abbiamo conosciuta finora.

Dalla Francia alla Gran Bretagna, dalla Spagna alla Danimarca, forze che, stando alle direttrici del secolo scorso, si ritenevano avversarie e alternative, sono state ridimensionate o schiacciate da nuovi protagonisti e nuove istanze, ingenuamente considerate minoritarie a prescindere, se non addirittura tabù. E si sono trovate costrette a mettere in discussione le proprie identità, a rielaborarle, e ad accorgersi che ciò che le unisce - in questo caso la volontà di proseguire nella costruzione della “casa comune europea” e la volontà di riformare dall’interno un sistema (economico, politico, istituzionale), anziché demolirlo ex abrupto - è adesso più forte di ciò che le divide.

Lo schema della “grande coalizione” tra socialisti e popolari, in procinto di essere applicato anche a Bruxelles per sciogliere i nodi delle nomine comunitarie, potrebbe presto diventare non solo una regola più che un’eccezione (e anche fuori dai regimi proporzionali, perché anche i sistemi che favoriscono il bipolarismo, come quello francese o quello britannico, non possono imporre a priori anche tra chi deve essere la competizione bipolare) ma anche il preludio a una fase di elaborazione politica che si annuncia forse drammatica, sicuramente non facile, ma di certo interessante.

In Italia è accaduto quel che è accaduto nel resto d’Europa. Il confronto tra Renzi e Grillo, in fondo, è stata la versione italiana di quello che oggi appare ancora come un tripolarismo (la sinistra, la destra, gli euroscettici) ma che potrebbe essere, chissà, la prima fase della costruzione di un nuovo bipolarismo continentale (unionisti vs nazionalisti). Lungo questa faglia che si è aperta nel cuore dell’idea politica di Europa, il nostro paese si trovava nella condizione di essere, con un trionfo grillino, assieme alla Francia di Marine Le Pen il fronte principale delle dinamica centrifuga antieuropea; ha scelto invece, con un verdetto inedito e sorprendente nei numeri, di mettere Matteo Renzi alla guida, assieme ad Angela Merkel, delle forze centripete.  

In maniera caotica e non programmata, dunque, e nonostante una campagna elettorale che in Italia ha toccato vette inaudite di approssimazione, becerume e provincialismo, le elezioni europee del 2014 sono state le prime a giocarsi su un terreno davvero europeo, le prime ad avere avuto una dimensione “continentale”, le prime in cui le forze politiche si sono ritrovate a confrontarsi (spesso loro malgrado) su cos’è e cosa deve essere l’Europa, le prime ad aver plasmato uno spazio di discussione sovranazionale ancora relativamente piccolo ma non più ristretto alle élite, perché nei bar italiani, il giorno dopo il voto, si parlava con la stessa disinvoltura di Renzi, Grillo e Marine Le Pen.

Tornando alla presunta “Democrazia Renziana”, insomma, è certamente esagerato e fuori luogo sostenere che le europee del 2014 sono state uno spartiacque paragonabile al voto del 1948. Eppure, fatte le debite proporzioni, se la Dc trionfò ai suoi tempi come il polo “atlantista”, il Pd ha la forza e la possibilità di configurarsi oggi come il polo “europeista”. Ciò non significa che lo sarà per sempre, né che sarà in grado di conservare i suoi consensi per decenni come accadde invece alla Dc, perché gli elettori hanno ormai la consuetudine di muoversi velocemente, e anche il più sostanzioso dei consensi rischia di svanire in un batter di ciglia.

Se i democratici hanno il problema di conservare e capitalizzare questo consenso, per l’area convinta fino a ieri di rappresentare l’alternativa alla sinistra, i guai sono più seri. Se i due poli sono rappresentati da Renzi e Grillo, che fare? Su quali temi costruire un nuovo contenitore politico di centrodestra, sempre che, mentre gli eredi del Pci rifanno la Dc, ve ne sia la necessità? Il progetto “moderato” di Ncd è stato fagocitato dal Pd renziano (per tacere dell’esperimento lib-dem di Scelta europea). Fratelli d’Italia resta confinato in una battaglia “identitaria” che risulta ogni giorno più vecchia (la Destra, la fiamma...).

Silvio Berlusconi, ignaro di ciò che si muove nel paese e in Europa, convinto di poter ancora orientare i destini della politica italiana con l’epica della sua persecuzione giudiziaria, mescola indifferentemente l’appartenenza al Ppe con pulsioni antitedesche e antieuro. E il fatto che all’indomani della sconfitta abbia proposto a Matteo Salvini e ad Angelino Alfano la perversione necromantica di “rifare il centrodestra”, dimostra quanto l’ex Cavaliere sia rimasto intrappolato in un’altra dimensione.

Chi fosse interessato a non lasciare nelle mani di Matteo Renzi l’intera rappresentanza del fronte anti-populista ed europeista in Italia, non può non tener conto di questi nuovi scenari, cercando di anticipare, e non frenare, le dinamiche globali che stanno plasmando - come avvenuto nel secondo dopoguerra - nuove categorie politiche che oggi possiamo solo intravedere. Da “rifare” non c’è nulla, molto è da inventare.