Europa in inglese significa che chiunque provenga da uno dei 27 stati membri ha libertà di entrare e stabilirsi nel paese, libertà di lavorare e competere con gli autoctoni a furia di sconti sulla paga oraria, libertà di accedere ai sussidi che il generoso welfare britannico garantisce ai suoi disoccupati. Un problema più percepito che reale, ma al quale una politica sempre più polipartitica dovrà dare risposte nel prossimo futuro.

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Il partito più votato alle elezioni europee, nel Regno Unito, è stato lo UKIP –  United Kingdom Independence Party – che supera il 27%, 10 punti in più rispetto alle precedenti europee. Second best, il Labour con il 25% - in crescita di quasi 10 punti, sebbene appena 4  più di quanto ottenuto alle precedenti politiche quando leader era Gordon Brown – non proprio un mostro di empatia elettorale. A seguire, i Conservatori con quasi il 24%, in calo di circa 4 punti.

I Tory terzo partito in una competizione nazionale non era mai successo – ma niente panico, non è solo colpa loro, è anche il contesto che gli è cambiato. Comunque dopo di loro ci sono i Verdi che perdono qualche decimale e si fermano sotto l’8%, e, solo quinti, i junior partner della coalizione di governo, i Lib Dem del vice-premier Nick Clegg che non raggiungono nemmeno il 7%.

Meno 7 punti, meno 10 seggi, cioè un unico seggio conquistato a Bruxelles: una débacle per i liberali. Una débacle annunciata che tuttavia aggiunge sconfitta a sconfitta da quando il fu-terzo partito nazionale – il partito storico dell’opposizione - ha fatto la scelta di andare al governo invece di continuare ad opporvisi, e andarci non come alleato della sinistra ma come fratello minore dei conservatori.

La politica britannica nel 2014 se ne va a soqquadro e la colpa è un po’ anche dell’Europa. Bisogna però intendersi su cosa significhi Europa nel Regno Unito. Oltremanica, Europa significa libertà di ingresso per gli stranieri e schiavitù da regole continentali troppo rigide. Cioè troppi immigrati e troppa burocrazia. Troppi costi per il contribuente che deve garantire anche agli ospiti europei il protettivo benessere nazionale, ma anche troppe restrizioni normative, troppi vincoli burocratici, troppi eccessi regolatori per il business nazionale che invece è abituato a competere proprio grazie a fisco leggero e regole light.

Europa in inglese significa quindi che chiunque provenga da uno dei 27 stati membri – nuovi o vecchi, ricchi o poveri - ha libertà di entrare e stabilirsi nel paese, libertà di lavorare e competere con gli autoctoni a furia di sconti sulla paga oraria; libertà di accedere al reddito ed ai sussidi che il generoso welfare britannico garantisce ai suoi disoccupati. Messa così effettivamente non è una gran simpaticona.

Il problema di cui parliamo sono quindi i lavoratori stranieri, ma anche i disoccupati stranieri; i lavoratori high skilled, professionisti, manager, operatori della City, creativi, ma anche i lavoratori meno glamour – manovalanza a buon mercato a cui la Gran Bretagna offre stipendi e condizioni di vita migliori di quelli di cui godrebbero nei rispettivi paesi di provenienza, ma peggiori di quelli a cui sono invece abituati i lavoratori britannici nativi. Quando va bene, si tratta quindi di dumping; quando va male, di violazione delle regole sul salario minimo di cui non sono responsabili i lavoratori ma i loro datori di lavoro del Regno. L’effetto fastidioso tuttavia rimane, a prescindere da chi abbia la responsabilità di averlo determinato.

La manovalanza a buon mercato offre naturalmente anche vantaggi all’economia locale: ha ad esempio permesso alle imprese britanniche di mantenere buoni livelli competitivi e rilanciarsi dopo la crisi. Ha tuttavia anche una serie di svantaggi, economici e sociali, e sono questi ad essere ormai avvertiti dagli elettori come prevalenti, e ad aver quindi assicurato nella tornata elettorale della primavera 2014 l’ardito rimbalzo nel consenso per l’Ukip.

Garantire il welfare britannico ai non-britannici che perdono il lavoro - o non lo trovano nemmeno, una volta entrati nel paese ospite - significa gravare sulle spalle dei britannici che, in una fase economicamente recessiva e/o di contrazione della prosperità, il lavoro rischiano di perderlo, o di non trovarlo più, o di trovarlo ma a condizioni meno favorevoli rispetto agli standard consueti, e questo proprio a causa della concorrenza dei colleghi stranieri meno onerosi che abbassano – in senso lato – il livello del mercato professionale. Ma è davvero così?

A Londra, dove l’economia non ha perduto dinamicità, l’Ukip è praticamente non pervenuto, e questo a dispetto di una immigrazione – non necessariamente fighetta – analoga a quella del resto del Regno. L’immigrazione quindi rappresenta sì una minaccia alla qualità e agli standard di vita dei residenti, ma una minaccia più percepita che oggettiva.

Se l’immigrazione è il problema percepito, tuttavia, l’Europa è percepita come la causa di quel problema, perché quelli che per i britannici sono immigrati, per l’Europa sono cittadini europei – di casa ovunque nel territorio dei 27. Ai cittadini europei l’Europa garantisce infatti libertà di circolazione e di stabilimento in ciascuno dei paesi comunitari. Paesi che tuttavia, come è evidente, non sono affatto uguali, né offrono ai rispettivi residenti standard socio-economici comparabili. Noi italiani emigriamo a Londra o Francoforte o Madrid o Stoccolma proprio perché si vive meglio lì, si trova più facilmente lavoro, si beneficia di servizi più efficienti, si riceve dallo Stato supporto in vari modi, anche materiali. Siamo emigranti intra-Ue, esattamente come i romeni che vengono da noi o che, più spesso, scelgono come approdo un paese più attrattivo del nostro.  

Il sistema di protezione e welfare del Regno Unito – in uno spazio di circolazione libera – è un plus che rende la destinazione una meta oggettivamente tentatrice. Ed infatti attrae ogni anno centinaia di migliaia di persone. Solo per il 2014, l’immigrazione netta – la differenza tra ingressi ed uscite – è stimata a 200mila unità. Nonostante la contrazione promessa dal governo di coalizione, l’incremento maggiore lo si deve proprio ai 50mila nuovi immigrati intra-europei (tra i quali, evidentemente, rientrano anche i ‘cervelli italiani in fuga’). Il target fissato dai coalition brother Cameron-Clegg per il maggio 2015 è di 100mila unità nette: un obiettivo pressoché impossibile da raggiungere perché è impossibile, con le attuali regole europee, respingere persone che arrivano in Gran Bretagna, provenendo da un qualunque altro paese europeo – sia esso la Romania, la Polonia, l’Italia o la Spagna.  

Il Regno Unito non può unilateralmente bloccare le frontiere ai concittadini europei non graditi. Può, semmai, negoziare con Bruxelles delle deroghe ai criteri di ingresso, ovvero dei limiti alla libertà di circolazione, dei vincoli al conferimento delle garanzie sociali – dei limiti temporali, ad esempio - o addirittura l’esclusione dal diritto a beneficiare di quelle garanzie per gli immigrati provenienti da paesi europei con fondamentali economici non commensurabili con quelli britannici: la Romania, per dire. Oppure, la Gran Bretagna può decidere di uscire dall’Unione Europea. L’Ukip di Farage si batte appunto per questo: chiudere le frontiere e uscire dalla Ue.

Né la partita negoziale, né la soluzione conflittuale sono tuttavia opzioni al momento sul tavolo. Il negoziato sui limiti e i criteri selettivi da porre agli ingressi è rinviato ad un eventuale monocolore Tory che dovesse risultare vittorioso alle politiche del 2015 – eventualità, questa, improbabilissima dato il quadri—penta-partitismo di fatto in cui si sta conformando il Regno Unito.

L’opzione ‘uscita dalla Ue’ è invece subordinata all’eventuale vittoria dei sì nel referendum che il premier Cameron ha promesso di indire nel 2017 – qualora ovviamente venisse riconfermato al domicilio di Downing Street, attualmente co-abitato dall’assolutamente europeista Nick Clegg, non favorevole al referendum, ma in caso di necessità, pronto a battersi per il no. Non pervenuto, sulla questione, il laburista Ed Miliband che sull’immigrazione si è sino ad ora limitato ad assumere la posizione opposta a quella di Farage – cioè un buonismo stiracchiato - mentre, qualora le prossime politiche le vincesse lui, il referendum sull’Europa non è dato sapere che sorte avrà. Si tenga conto che in campagna elettorale l’europeista Labour non ha spiccicato una singola parola sull’Europa: ignorato completamente il dossier. Della serie: meglio tacere che dire le solite banalità perdi-voti.

L’affermazione elettorale di Farage - distribuita in tutto il Regno ad eccezione di Londra e della Scozia, dove tuttavia Ukip guadagna il suo primo seggio – denuncia una sofferenza profonda del paese, una sostanziale disaffezione per l’inettitudine coercitiva europea, ed una domanda al governo di Sua Maestà perché tiri fuori gli attributi, faccia qualcosa, non si lasci piegare dal plotone di tecnocrati assiso alla tastiera dei bottoni nel Continente. Il governo di Sua Maestà tuttavia è un governo di coalizione che, su come affrontare le relazioni europee, ha posizioni più che contrastanti, radicalmente divergenti. Le misure già intraprese dal governo in carica si limitano infatti al tetto agli ingressi per gli immigrati non-europei ed alla esclusione dell’automatismo nell’attribuzione dei benefit per i lavoratori provenienti da altri paesi membri. Misure evidentemente inadeguate ad incidere sul fenomeno al punto da mettere sotto controllo il trend.

Nel Queen’s Speech del 4 giugno, il governo ha annunciato però, se non un cambiamento di rotta, un pacchetto di provvedimenti pensato apposta per gli elettori di Farage, in cui tra l’altro, si prevede l’inasprimento delle sanzioni per i datori di lavoro britannici che occupassero lavoratori stranieri pagandoli meno dei colleghi nativi.

Alle prossime elezioni politiche il tema si riscalderà: i Conservatori già promettono un manifesto elettorale 2015 tutto fatto di dagli all’immigrato e Europe, fuck you. Ma staremo a vedere, perché la constituency confindustriale la linea anti-europeista non la gradisce per nulla. E la CBI, l’associazione degli industriali britannici, porta voti e finanziamenti che i Tory non possono ignorare.

Il prossimo autunno tuttavia in Gran Bretagna si giocherà un’altra partita: il referendum per l’indipendenza della Scozia. La vittoria dell’Ukip potrebbe rafforzare il fronte indipendentista. L’eventuale vittoria dei sì avrebbe ricadute, non solo istituzionali, sui rapporti con l’Europa. Potrebbe rendere più conveniente per Londra divorziare da Bruxelles? Non è escluso.

L’Europa rappresenta un mercato importante per le imprese del Regno Unito; un mercato tuttavia sempre meno prospero e sempre meno garantito. America e Far East diventano alternative via via più promettenti. Se si votasse oggi, la maggioranza dei cittadini britannici si esprimerebbe per restare in Europa. Non è affatto detto però che le buone ragioni che consigliano oggi di restare permangano anche nel 2017, quando dovrebbe tenersi l’eventuale referendum promesso da Cameron. Molto infatti dipenderà da quanta nuova prosperità, quali nuove opportunità, e quanto diffuse, l’Europa sarà stata in grado nel frattempo di creare.

Tutto cioè dipende dalle risposte che l’Europa comincerà a dare da domani mattina. Se ad esempio saprà valorizzare l’opportunita del Trattato di libero scambio con gli Stati Uniti o se invece riuscirà a perdere anche quest’occasione di creare un nuovo spazio libero per le merci europee, pur di dare sfogo alla balorda ma diffusa idea di protezione di sé, della propria diversità, dell’europeità: cioé la preservazione dell’Europa dalle contaminazioni della vita nel resto del globo.

@kuliscioff