Fatta la legge per Eluana, manca ancora quella per Fabo
Diritto e libertà
Mutatis mutandis, è come se ieri l'Italia avesse votato l'abolizione della schiavitù, ma non ancora quella della segregazione razziale. La legge sul testamento biologico è il minimo sindacale, in termini di diritto, rispetto a una materia in cui l’evoluzione della cultura deontologica e della prassi giurisprudenziale aveva già consolidato un indirizzo costituzionalmente non solo legittimo, ma obbligato.
Che la volontà del paziente cessasse di rilevare quando questa non potesse più essere formalmente dichiarata e confermata era uno dei paradossi imposti dalla resistenza di una medicina paternalistica e “materialistica”, ancorata al bipolarismo vita-morte inteso in un senso meramente biologico e non antropologico. Si comprende la soddisfazione liberatoria che ha accompagnato l’approvazione della legge, ma è bene rimanere consapevoli che il tardivo adeguamento della legislazione italiana sul fine vita a principi di civiltà giuridica fa emergere semplicemente gli ulteriori ritardi che la riflessione su questi temi ha continuato ad accumulare, a partire dalla scolastica e inconsistente differenziazione tra “eutanasia passiva” e “eutanasia attiva”, che se ha qualche fondamento medico-legale, non ne ha sostanzialmente nessuno dal punto di vista bioetico e deontologico.
L’idea che l’eutanasia sia una sorta di rottura da parte del malato del patto terapeutico, sulla base di istanze meramente individuali è fondata sul medesimo assunto che ha autorizzato la coercizione medica, cioè che la malattia non sia una condizione umana, ma uno stato patologico impersonale, che il medico ha il dovere di “combattere”. In questa logica, la medicina non serve a fare vivere e morire bene, cioè a curare i malati riducendone le sofferenze, ma a scongiurare la “sconfitta” della morte. L’evoluzione tecnologica in campo scientifico rende particolarmente sinistra questa medicina “antagonistica” alla morte e indifferente alle condizioni di vita del malato.
Passare dal testamento biologico all’eutanasia non significa passare ad un altro ordine di grandezza o di gravità morale. Significa prendere banalmente atto che laddove il paziente preferisce morire che prorogare sofferenze insostenibili - cioè preferisce morire bene, piuttosto che male, o meglio piuttosto che peggio - l’esercizio di questo diritto non può essere condizionato dalla natura dell’intervento medico necessario a soddisfare la sua richiesta.
Oggi Eluana potrebbe disporre finalmente di uno strumento per “staccare le macchine”. Fabo non disporrebbe di alcuno strumento utile e sufficiente a sottrarsi a una condizione di subita e maledetta prigionia, perchè nel suo caso la morte voluta non sarebbe potuta conseguire in maniera non cruenta dalla sospensione di cure cosiddette “salva-vita”. Fabo, anche domani, per morire bene dovrebbe andare in Svizzera.