La ormai ben nota sentenza della Corte Costituzionale che ha disposto la (parziale) restituzione del mancato adeguamento delle pensioni al costo della vita deciso dall'esecutivo Monti ha suscitato accese polemiche e, in più di un caso, aperto il campo a reazioni scomposte e irresponsabili, soprattutto da parte di chi delle difficoltà di quei tormentati mesi di fine 2011 fu immediato artefice.

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Al netto di una certa irragionevolezza diffusa, l'episodio può forse fornire lo spunto per tornare sull'operato dei "tecnici" e magari persino per tentarne un giudizio, a parere di chi scrive fatto più di ombre che di luci, soprattutto per ciò che riguarda l'impostazione di fondo che ne è stata la cifra. Impostazione che, lungi dall'innovare approccio culturale e strumenti rispetto alle politiche pubbliche dei vent'anni precedenti, ha finito per ricalcarle abbastanza fedelmente, nonostante il potere contrattuale immenso - complice lo spread in continua ascesa e la pressione sul paese vicina al punto di rottura - che, almeno per un certo tempo, Monti ebbe a disposizione.

Certo, esistevano anche vincoli di cui non si può non tenere conto, in primis politici, ché il parlamento da quelle forze era composto e con quelle bisognava avere a che fare, oltre ad una macchina burocatico-amministrativa data ed impossibile da cambiare in pochi mesi. Ma è appunto l'intero "impasto" di opportunità disponibili e mancate, di limiti - anche culturali - collettivi e personali, di spinta al cambiamento e profonde resistenze allo stesso che continua ad interrogarci: riflettere su quell'esperienza significa fare i conti con la perenne difficoltà di imprimere una svolta vera alla storia economica dell'Italia, in acque calme come in acque agitate.

Torniamo per un attimo al luglio del 2012: nel suo discorso del "whatever it takes", Mario Draghi, a fronte di acute e rinnovate tensioni sui debiti sovrani dei paesi del sud Europa, salvò di fatto l'integrità dell'Eurozona, aprendo alla possibilità che la banca centrale, seppur dietro condizionalità, diventasse a tutti gli effetti lender of last resort anche per gli Stati sovrani. Non era la prima volta che Francoforte agiva: nel luglio dell'anno prima, Trichet aveva brevemente acquistato titoli spagnoli e italiani e, qualche mese più tardi, era stato lo stesso Draghi a lanciare la prima operazione LTRO di rifinanziamento per il sistema bancario. Tuttavia, la strada che condusse a tali interventi fu parecchio accidentata e non lineare, complice il fondato timore che essi potessero innescare dinamiche di moral hazard in quei paesi tradizionalmente recalcitranti a mettere in atto le necessarie riforme. E' quella che J.F Kierkegaard ha chiamato "on the brink strategy": fare da semplice spettatore mentre la situazione si deteriora fino quasi a giungere sull'orlo del precipizio - "brinkmanship" - e forzare così la mano del cambiamento, ottenendo il massimo risultato possibile in termini di concessioni della controparte. L'insediamento del governo Monti rappresentò il segnale che la Bce attendeva per entrare seriamente in azione.

Le difficoltà cominciano quando si tratta di trovare un accordo sul significato di un'espressione così abusata come "fare le riforme". In questi anni, ci siamo abituati ad intenderle (ed a praticarle) come se fossero poco più che un sinonimo di austerity (termine a sua volta polisemico), e quasi sempre sul lato delle entrate, a dispetto della rumorosa retorica sui tagli. Ed è innegabile che a tale interpretazione sia riconducibile - con l'importante eccezione della riforma delle pensioni - anche buona parte dell'azione di Monti, caratterizzata da riforme strutturali timide quando non assenti e da un consolidamento composto per 2/3 di maggior prelievo. Ma era davvero questo che domandavano la Bce ed i mercati? Era questa l'unica strada percorribile per cercare di salvare l'Italia? E' lecito dubitarne.

Partiamo dalle parole di Lorenzo Bini-Smaghi, consegnate ad una lettera del luglio 2013 al Corriere della Sera, significativamente intitolata "La Bce chiedeva riforme, non austerità. Ma per l'Italia è stato più facile tassare":

"In Italia si è continuato a ritenere che quella lettera (la famosa lettera del 5 agosto 2011, ndr) fosse responsabile delle politiche di austerità messe in atto nei mesi successivi, ignorando che il punto principale di quella missiva fosse la richiesta di riforme strutturali, che sono ancor più necessarie delle misure fiscali per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche. Le riforme continuano così ad essere rinviate, e la discussione di politica economica rimane incentrata sulle misure fiscali. Sembra quasi che, di fronte all'emergenza, sia più facile aumentare le tasse che fare le riforme".

Esse sono interessanti perché indicano una verità semplice quanto spesso negletta: aumentare il potenziale di crescita attraverso riforme strutturali è spesso il modo migliore di occuparsi anche della salute dei conti pubblici. Più importante del racimolare denaro "maledetto e subito", in altre parole, è cambiare le aspettative degli operatori circa la traiettoria futura del paese. Tanto che l'unica vera riforma strutturale unanimemente considerata come tale, quella previdenziale che porta il nome di Elsa Fornero, nel primo anno di vita, il 2012, era prevista avere un impatto negativo di circa 240 milioni di euro per la finanza pubblica.

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I mercati finanziari sono in grado di anticipare gli effetti delle riforme strutturali e ciò si trasmette nella valutazione del premio al rischio dei singoli paesi. Come sostengono M.Cardoso e R.Doménech in "The sovereign debt crisis: structural reforms and country risk" e C. Findlay, C. Dajud e S.Sorescu in "Structural reform lowers country risk":

"[...] higher levels of debt are not associated with higher risk premia when the borrowing country has a set of structural policies in place that contribute to growth and to the capacity to repay".

Ciò che noi abbiamo avuto, al contrario, sono stati massicci interventi fiscali, per giunta operati all'85% tramite maggior prelievo, seppur la ricerca economica disponibile indichi che gli interventi che privilegiano il taglio della spesa tendono ad essere assai meno costosi in termini di perdita di output. Se consideriamo quanto taglio e riqualificazione della spesa siano anch'esse per l'Italia una necessaria ed imprescindibile riforma strutturale, possiamo apprezzare l'entità del danno di averla lasciata sostanzialmente inalterata nel mentre si continuavano a drenare risorse dal settore privato verso quello pubblico: la pressione fiscale crebbe di circa due punti percentuali, arrivando a sfiorare il 44% del prodotto, dove si mantiene a tutt'oggi.

D'altra parte, che il governo Monti, anche al netto dei possibili fattori esterni imprevisti, abbia ampiamente sottovalutato l'effetto delle misure adottate, lo si vede dalle previsoni di crescita contenute nei vari documenti di finanza pubblica: a dicembre del 2011, in sede di approvazione della manovra Salva Italia si guardava ad una crescita di -0,4% nel 2012, +0,3% nel 2013 e +1% nel 2014; in occasione del Def di aprile 2012 si passò ad un -1,2% per il 2012, +0,5% nel 2013 e +1% nel 2014. Ancora nel Def di settembre 2012 per l'anno successivo si stimava una crescita solo leggermente negativa e poi positiva per l'anno successivo. La realtà fu invece di -2,5% nel 2012, -1,9% nel 2013 e -0,4% nel 2014. A riguardo, Luca Ricolfi ha ipotizzato che vi sia stata una grossa sottovalutazione dell'effetto ricchezza negativo originatosi nell'impennata delle tasse sulla casa e relativo impatto sui consumi delle famiglie. Detta in modo brutale: praticare un salasso su di un soggetto già debole e provato rischia di infliggergli danni duraturi, ed abbiamo visto che l'argomento dell'urgenza di trovare denaro qui e subito e della mancanza di alternative teoricamente praticabili non sono poi così solidi come si è sostenuto.

Ma il punto centrale su cui soffermarsi è la sostanziale assenza di discontinuità tra le politiche di Monti e quelle che hanno informato l'azione dei decisori pubblici nei vent'anni precedenti: dalla crisi del 1992 in poi, passando per lo sforzo di agganciare la moneta unica, aumentare le tasse è stato il piatto principale servito da tutti i governi (con l'eccezione del governo Berlusconi 2001-2005 che, se possibile, fece anche di peggio, erodere l'avanzo primario faticosamente raggiunto in precedenza lasciando correre la spesa e gettando le basi per la crisi del debito successiva). Vent'anni in cui è accaduto questo (fonte Boldrin - Trento, Uscire dalla crisi italiana):

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Fatto cento il reddito disponibile netto di famiglie e pubblica amministrazione nel 1995, nel 2010 quello delle prime ammontava a circa 150, quello della seconda a ben oltre 230. In altre parole, lo Stato è andato rosicchiando una quota crescente di reddito disponibile delle famiglie, il quale, a fronte di contribuiti e imposizione fiscale più onerosi, è aumentato meno della (pur bassa) produttività del lavoro. Difficile non vedere nel grafico la vivida rappresentazione di una delle principali se non della principale ragione del declino inarrestabile dell’Italia. 

In definitiva, interrogarsi su tale coazione a ripetere, da Amato a Monti passando per Prodi, significa chiedersi se e come sarà mai possibile cambiare davvero il paese, riflettere sull’equilibrio di potere esistente e sui rapporti di forza nella società che perpetuano la spinta verso la stagnazione, capire come i più abbiano finito per convincersi che l’intermediazione pubblica crescente abbia rappresentato la vittoria del (neo)liberismo, quando invece ne è ovvviamente la negazione; farsi la domanda più scomoda, infine: è troppo tardi? La legacy di un passato così ingombrante, i troppi privilegi distribuiti come fossero universali diritti, la demografia avversa, la solidarietà preventiva tra protetti, il modo in cui si sono sedimentati gli interessi nel corso degli anni, rendono ormai impraticabile coagulare consenso riformatore? Domande che resteranno con noi a lungo.