La digitalizzazione dei processi produttivi è una sfida ineludibile. L’Italia deve agganciare questa rivoluzione per guadagnare competitività e creare occupazione e reddito. Il Governo ha messo in campo risorse importanti per sostenere le imprese in questo cambiamento epocale, stimolando investimenti, innovazione, internazionalizzazione e formazione di professionalità adeguate.

Calenda macchinari

Le grandi trasformazioni economiche, politiche e sociali non possono essere accettate o rifiutate: vengono cavalcate oppure vengono subite. La rivoluzione digitale che sta investendo il mondo produttivo, e in particolare quello manifatturiero, rappresenta una grande opportunità per l’Italia. Le nostre imprese, i nostri imprenditori, hanno fatto la loro fortuna, e quella del Paese, grazie a caratteristiche come la flessibilità e la creatività e l’eccellenza qualitativa per cui giustamente siamo rinomati.

Il fatto che la domanda globale si stia orientando sempre più sul “bello e ben fatto”, dunque, può costituire un importante moltiplicatore per la nostra competitività. Al tempo stesso, i modelli produttivi si stanno muovendo in una direzione che premia la capacità delle imprese di innovare, di internazionalizzarsi e di collocarsi nelle catene globali del valore: su tutto questo invece siamo in ritardo.

Il Piano nazionale Industria 4.0, che rappresenta il cuore delle misure per la competitività della legge di bilancio 2017, si pone in continuità con la politica economica del Governo Renzi, ma imprime una decisa accelerazione al nostro modo di produrre beni e servizi. Da almeno vent’anni il dibattito pubblico ruota attorno alla sfida della produttività, in tutte le sue componenti: adesso è giunto il momento di dare benzina al motore della crescita, mettendo sotto pressione la produttività in tutte le sue componenti.

In breve, le misure che abbiamo varato rispondono a tre grandi esigenze. La prima è spingere le imprese a fare investimenti di qualità per produrre beni ad alto valore aggiunto e in grado di raggiungere i mercati internazionali. Il credito d’imposta per la ricerca e sviluppo ne è il perno: puntiamo ad alzarne l’aliquota al 50 per cento di tutte le spese in R&D sia interne sia esterne all’azienda, elevando contestualmente la soglia massima da 5 a 20 milioni di euro. La proroga del superammortamento al 140 per cento, che ha già dato ottimi risultati nel 2016, serve a spingere le imprese a proseguire nel percorso di adeguamento della propria base produttiva. L’iperammortamento al 250 per cento per i beni 4.0 rappresenta, in questa strategia di ammodernamento, la leva forse più forte: le imprese italiane, anche per la loro ridotta dimensione media, hanno faticato finora a stare al passo con i profondi cambiamenti nel modo di “fare le cose”. Adesso è il momento di dare una decisa sterzata, per evitare che – da avanguardia della manifattura europea – l’Italia rimanga spiazzata.

Abbiamo segnali del tutto incoraggianti: la performance record del nostro export nel 2015, e il buon risultato che stiamo avendo nel 2016 nonostante la situazione di certo non favorevole al commercio internazionale in generale, confermano che abbiamo delle vere e proprie eccellenze mondiali. Questa propensione all’eccellenza, alla ricerca del dettaglio, alla competitività va diffusa verso una platea ancora più ampia, perché solo dai mercati internazionali può arrivare l’ossigeno di cui l’economia italiana ha bisogno.

È in quest’ottica che si capisce quanto sia importante per noi promuovere la propensione all’export delle nostre imprese: ed è per questo che, rispetto alle misure appena citate, riveste un ruolo da pivot il Piano Straordinario per il Made in Italy e, più in generale, la strategia che il Paese sta mettendo in atto per accompagnare i prodotti italiani nel mondo, sia rafforzando la nostra presenza sui nostri tradizionali mercati di sbocco sia spingendoci verso nuovi mercati. Il nostro target è ben definito: la classe media globale sta aumentando soprattutto nelle grandi economie emergenti. Per raggiungere questo target dobbiamo da un lato aiutare le nostre imprese a crescere ed espandersi, dall’altro fare un grande investimento europeo nella definizione degli standard globali e produttivi. Questo spiega l’attenzione che abbiamo per i negoziati commerciali internazionali, a partire dal TTIP, il trattato transatlantico.

Macchinari più efficienti e imprenditori coraggiosi non bastano, però, a fare fabbriche più produttive. Un pilastro della nostra strategia – che rappresenta il secondo driver della nostra manovra – è quello della produttività del lavoro. Oltre al Jobs Act, che ha ridefinito il nostro mercato del lavoro in senso più moderno, vogliamo cogliere la Rivoluzione 4.0 sia stimolando la produttività dei lavoratori (attraverso la detassazione del salario di produttività), sia con un grande sforzo per la formazione di adeguato capitale umano. Non si può parlare di Industria 4.0 senza pensare anche alle Università 4.0: con la legge di bilancio mettiamo a disposizione risorse importanti, ma mettiamo a disposizione soprattutto un nuovo metodo per allocarle verso quelle strutture – quali competence center e digital innovation hub – che daranno maggiori garanzie di qualità e di orientamento al risultato.

Il terzo asse portante della nostra strategia 4.0 è quello che passa per la produttività totale dei fattori: in un contesto di competizione globale, le imprese vincono solo se possono contare su un tessuto nazionale che le supporta e che le mette in condizione di confrontarsi ad armi pari coi loro concorrenti. Per questo dobbiamo concentrarci sui fattori abilitanti la competitività: dalla riforma del settore pubblico all’apertura dei mercati, fino alla realizzazione di quelle infrastrutture materiali (come la banda ultralarga) e immateriali (come un sistema giudiziario e della ricerca funzionanti) che definiscono il sistema di coordinate entro cui un’azienda opera e si muove. Le tante inefficienze, reali o solo percepite, che hanno caratterizzato l’Italia fino a oggi hanno spesso danneggiato le nostre imprese e la nostra competitività: allineare le performance italiane a quelle internazionali e promuovere una migliore comprensione dei nostri vantaggi competitivi sono obiettivi tanto cruciali quanto urgenti.

Nell’affrontare questi temi, a livello di analisi e soprattutto di policy, è forte la tentazione di declinare la politica industriale nel senso della ricerca dei settori “strategici” o dei campioni nazionali su cui scommettere. Seguire questa tentazione, come talvolta si è fatto nel passato, sarebbe però oggi sbagliato: la ricchezza del nostro Paese e la forza del suo sistema industriale e produttivo risiedono proprio nel pluralismo che ci caratterizza, nel coraggio delle nostre imprese e nella loro volontà di assumersi dei rischi.

Noi dobbiamo essere al fianco delle imprese, non già pianificando a tavolino i settori che vogliamo valorizzare o cercando di individuare quelli che possano essere ritenuti più promettenti, ma facendo un atto di umiltà: concentrandoci sui fattori. Lo Stato non deve sostituirsi alle imprese, ma creare le migliori condizioni perché esse possano lavorare e crescere a beneficio di tutti. Solo così potremo cogliere la rivoluzione 4.0 e convertire l’innovazione in progresso, la digitalizzazione in reddito nazionale, la specializzazione tecnologica in lavoro: in una parola, cavalcare il futuro e non esserne travolti.