La ricerca funzionalista del secolo scorso ha tentato di ridisegnare l'alloggio di massa secondo necessità universali. Ma l'elenco dei bisogni che l'alloggio moderno deve soddisfare ha la necessità di essere aggiornato, anche alla luce dei mutamenti della società. Dei quali l'architettura ha il compito di essere non solo specchio neutro, ma anche dinamica "suggeritrice".

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Da un lato il lungo corridoio, sul quale si aprono i diversi ambienti dell'appartamento del Rione Prati a Roma. La cellula urbana nella quale Ettore Scola ambienta, attraverso gran parte del Novecento, le vicende di Carlo alias Vittorio Gassman, protagonista della pellicola del 1987, La famiglia. Dall'altro il piccolo appartamento al Prenestino, con vista sulla tangenziale, nel quale Giovanni Vivaldi alias Alberto Sordi abita, nel racconto de Il borghese piccolo piccolo di Vincenzo Cerami, trasposto da Mario Monicelli nel film omonimo del 1977.

Ancora, i palazzoni a elementi cilindrici di via Giovanni Conti, nel quadrante nord-orientale della città, che appaiono sullo sfondo di uno degli episodi di Un sacco bello, il film di e con Carlo Verdone del 1980, e le case di Pietralata che il maestro alias Bruno Cimino incontra nel suo peregrinare attraverso la borgata nello sceneggiato televisivo del 1972, diretto da Vittorio De Seta, Diario di un maestro.

Immagini di realtà uguali e contrapposte. Topografie vicine e lontanissime degli spazi dell'abitare. Un tema sul quale almeno da Vitruvio in poi si sono esercitate la trattatistica e la progettazione, nel tentativo di descrivere bisogni e aspettative delle società di riferimento. Dalle domus romane agli appartamenti nei grattacieli di Porta Nuova a Milano oppure alle residenze al 24esimo piano della Eurosky Tower dell'Eur, a Roma. La lunga storia dell'edilizia abitativa non racconta soltanto l'evoluzione di tecniche e pratiche dell'architettura. Ma la sua capacità di rispondere, in maniera anche profondamente diversificata, ai mutamenti di Persone e luoghi.

Sulla scia di questa inarrestabile vitalità, la scienza del costruire ha saputo intercettare, facendosene interprete, le esigenze di società anche complesse. Ha dato risposte. Qualche volta ha avuto l'ambizione di proporre soluzioni che avrebbero potuto diventare modelli virtuosi, ma solo se compiute nella loro interezza. Se supportate da quelle opere di manutenzione, previste dal progetto, ma rimaste irrealizzate. Come accaduto al Corviale di via Poggio Verde, a Roma, "nato" negli anni Settanta da un team di architetti coordinati da Mario Fiorentino. Oppure allo Zen di Palermo, progettato da Vittorio Gregotti. Interventi, questi e molti altri, prodotti in aree periferiche. Dove a un inserimento spaziale, più agevole che in altre parti dei relativi centri urbani, corrispondeva una inclusione nel tessuto sociale, resa evidentemente difficoltosa dalle criticità esistenti. Tuttavia, seppur in presenza di rilevate zone d'ombra, per alcuni decenni dopo il secondo dopoguerra la casa ha costituito un capitolo importante delle politiche del Paese. Delle amministrazioni delle città.

Dalle costruzioni di fortuna delle borgate periferiche si guardavano i palazzi che si andavano realizzando, più esterni della città. Lo spazio che li separava sembrava una distesa incolmabile. Forse lo era. Ma "dentro" la città era sufficientemente compatta. Le differenze tra i settori più esterni e quelli centrali erano sensibili, certo. Ma non tali da ergere barriere, da creare suddivisioni nette. Poi con gli anni Ottanta, forse anche un po' prima, le nuove urbanizzazioni, non solo a Roma, dilatano oltre misura le antiche differenze.

Nascono nuove città che vanno ad aggiungersi a quella esistente. Gli appartamenti nei nuovi palazzi sono lontanissimi da quelli del Centro e del suo intorno. Hanno caratteri difformi. Esprimono nel loro complesso una strisciante negatività. Non si tratta soltanto di una evoluzione progettuale che porta ad ottimizzare gli spazi, a rimodularli. C'è dell'altro. C'è in molti casi anche, riverberata all'interno, la scarsa qualità architettonica degli esterni. Questo fenomeno negativo a Roma, ad esempio, è accresciuto dalla ricorrente serialità dei progetti. Riproposti da uno dei grandi costruttori di turno, ovunque possa. E' così che le linee di edifici della Bufalotta possono ritrovarsi a parco Prampolini, sulla Prenestina, oppure a Casal Bruciato, nei pressi della via Pontina.

Si è costruito molto, ma lo si è fatto "male". Quasi ovunque in Italia, soprattutto a Roma. Dove le nuove conurbazioni nulla hanno a che vedere con gli ampi fabbricati d'abitazione, cifra distintiva dei nuovi quartieri costruiti già in pieno conflitto al Nomentano, Salario, Pinciano, Monteverde e Parioli. Così nascono le palazzine che hanno invaso la città. Progettate da architetti come Aschieri, Capponi, e poi Ridolfi, De Renzi, Busiri Vici Libera, Plinio Marconi e Giò Ponti. Occasione anche per sperimentare nuove tecniche, nuovi materiali e nuove idee. Quella stagione è stata presto esaurita e dimenticata, sostituita da un'architettura svuotata di contenuti, capace soltanto di riproporsi in maniera identica. Senza rispetto per il contesto. Senza attenzione nei confronti delle persone.

Il problema è che, mentre gli spazi dell'abitare continuano ad offrirsi troppo spesso nella loro immutabilità, la società ha scomposto le sue categorie e le ha riassemblate. Continua a farlo. Cambiando rapporti. Sovvertendo riferimenti. Le politiche per la casa del passato si sono trasformate in operazioni immobiliari che hanno prodotto milioni di metri cubi di nuove costruzioni, destinati a rimanere senza inquilini. Spazi inutilizzati, proprio mentre c'è la richiesta di nuovi alloggi. Un circolo vizioso, determinato da attori che recitano, ognuno, un soggetto diverso. Un corto circuito che ha contribuito a realizzare una città sempre più "brutta" e sempre più "chiusa". A Roma, ma anche altrove.

Per questo si sperimentano con timidezza altre soluzioni. Anche guardando soggetti ai quali il mercato immobiliare degli ultimi anni non ha saputo rispondere. Famiglie monoparentali, coabitazioni di studenti o giovani professionisti, lavoro domestico, cohousing, gruppi etnici o sociali con esigenze particolari, portatori di handicap, anziani più o meno autosufficienti. Cellule abitative che sommate le une alle altre non producono sic et simpliciter la città. Perché è evidente come la dimensione privata senza quella pubblica rimanga priva di una parte essenziale, insufficiente ai bisogni, inadeguata alle richieste.

Quel che comunque emerge con prepotenza è come sia andato progressivamente "segregandosi" il concetto di casa da quello più complesso dell'abitare nella città. La ricerca funzionalista ha tentato di ridisegnare l'alloggio di massa secondo necessità universali, capaci di riformare sia l'abitare borghese che il degrado delle borgate. Il risultato? Un ibrido a metà tra il modello collettivista dell' "unità di abitazione" e la risposta individualista della villetta suburbana, immerso in una realtà complessa, costituita da una somma di particolarità che a quanto pare gli architetti non sembrano in grado di decriptare. Da tempo e non per responsabilità soltanto loro.

"Molti si aspettano dagli architetti nuove risposte sul tema dell'abitazione, a cominciare da quelle amministrazioni pubbliche che sembrano ora intenzionate a favorire la sperimentazione dopo almeno due decenni di immobilismo. Una cosa emerge chiaramente dalla crisi: la pesante insufficienza del modello urbano finora prodotto dal sistema immobiliare". Questa l'interpretazione di Cino Zucchi, il progettista, tra l'altro, degli edifici residenziali e degli uffici nell'area ex Alfa Romeo, a Milano, oltre che curatore del Padiglione Italia alla prossima Biennale d'architettura di Venezia.

Perché il problema non è soltanto il necessario ripensamento dell'abitare ma anche quello del modello urbano. Insomma va ricercato quell'elemento di libertà, quella flessibilità, tra la forma urbana e le cellule abitative che è mancata perfino a modelli molto innovativi come la Città Orizzontale di Diotallevi e Marescotti. Partendo dalle nuove esigenze abitative. Cercando di trovare risposte adeguate nei modelli tradizionali ormai consolidati dall'uso, ma anche in quelle in quelle tipologie rivoluzionarie capaci di accogliere forme di vita in comune. Proprio come il già citato cohousing, una modalità residenziale costituita da unità abitative private e spazi e servizi comuni. Secondo la formula della condivisione e del "mutuo soccorso" tra vicini.

Una tipologia, quella del cohousing, il cui elemento di maggior interesse è l'adattabilità a situazioni urbane anche molto diverse. Una soluzione alla quale guardano con crescente interesse anche le nuove famiglie, i giovani professionisti e gli anziani. Un fenomeno di grande interesse, variamente dibattuto. Come indicano la recente mostra di New York, organizzata dall'American Institute of Architects, sulla necessità di ripensare strutture e servizi in virtù del boom degli over 80 e l'incontro del 12 febbraio scorso promosso dalla Triennale di Milano su Housing sociale e produzione di abitabilità tra interessi pubblici e investimenti privati. In Italia, dove sono in corso esperimenti di riforma dei grandi quartieri del secondo dopoguerra, come quello di Mca per le case Aler di Milano, o di nuove trasformazioni urbane, come quelle al Porto Navile di Bologna, questo processo di rinnovamento delle forme spaziali procede. Con lentezza, però, una lentezza almeno in parte dovuta all'antropizzazione stratificata dei nostri territori, delle nostre città. Dove l'inserimento di un edificio non può essere avulso dal contesto.

Per questo motivo non è "semplice". Ma bisogna continuare a progettare. Dopo aver ragionato. Sulla forma dello stare insieme ma anche sull'adattamento alle trasformazioni e ai nuovi modi di vita. Sulla necessaria innovazione come sulla tutela dei modelli storici. Coniugando il bisogno di protezione, proprio della casa, con la continua, spesso insoddisfatta, richiesta di innovazione.

"La casa deve piacere a tutti. A differenza dell'opera d'arte, che non ha bisogno di piacere a nessuno. L'opera d'arte viene messa al mondo senza che ce ne sia bisogno. La casa invece soddisfa un bisogno". Così sosteneva Adolf Loos, architetto e polemista viennese. Sottolineava la dualità dell'abitare. La sua contraddizione primitiva. Che continua ad esserci e contribuisce alla dissoluzione del tessuto connettivo delle nostre città.