Ventura propaganda

Immaginate di entrare in un bar durante una pausa in un lungo viaggio. Non conoscete quella zona, non ci siete mai stati, e avete scelto quel posto per fermarvi solo perché è la prima insegna che avete incontrato.

Il bar è il tipico posto di passaggio: è vicino alla strada, è stretto e lungo, con le luci troppo forti e qualche tavolino in fondo su cui non si siede mai nessuno. Tutto succede al bancone, lucidissimo, dietro cui il barista serve ogni avventore con uguale indifferenza. Gran parte dei clienti resta il meno possibile: un caffè in fretta per giustificare la sosta, un passaggio in bagno, e via che si riparte. Un paio invece sono appoggiati al marmo e bevono un bicchierino di bianco anche se sono le undici di mattina. Sono gli unici che sembrano prendersela con calma.

Mentre state buttando giù il vostro caffè e pensate a quanto è cattivo - ma avete capito subito, entrando, che avreste maledetto la vostra abitudine di berlo senza zucchero - sentite, sulla destra, un brandello di discorso di uno degli habitués. Con quel mezzo sorriso di chi sta parlando a una persona che non conosce davvero, il viso rivolto verso il barista ma il tono abbastanza alto da rendere chiaro che in realtà si vuole far sentire, l’uomo - un signore di mezza età con due occhiaie molto profonde e un giubbotto in similpelle pelle - si sta esibendo in un discorso di storia alternativa. Nientemeno.

«Se Hitler c’aveva un anno in più, finiva diversa», dice il nostro, e continua facendo qualche allusione ai successi militari ma anche a questioni assai più cupe. Posate la tazzina e gli rivolgete un’occhiata obliqua, facendo attenzione a non farvi notare (ma d’altra parte l’uomo sembra rivolgersi a tutti e a nessuno in particolare).

Ora, la domanda è: come reagite? È ragionevole aspettarsi uno di questi due comportamenti: il primo è pensare “ma guarda te che cretino”, pagare il conto in fretta e lasciare quel postaccio dimenticandovi della scena nell’arco di qualche minuto.

Il secondo è assumere quell’atteggiamento mentale un po’ paternalistico di chi riconosce l’opinione dell’uomo semplice e si compiace di essere fatto di una diversa pasta. E quindi vi metterete a richiamare le vostre robuste conoscenze di storia contemporanea, i motivi per cui la Seconda Guerra Mondiale fosse di fatto persa per la Germania già nel 1943, qualche illuminata pagina che porta prove incontrovertibili dell’inevitabile sconfitta tedesca prima ancora che venisse sparato un colpo.

Magari scriverete un messaggio a un vostro conoscente sui toni di «pensa te, mi sono fermato in un bar qui sulla statale e c’è uno scemo che beve un bianchino e dice che vincevano i nazisti». Magari vi fermerete qualche minuto di più, con la vostra tazzina di pessimo caffè, per sentire dove vuole andare a parare quel discepolo - molto ipotetico - di Niall Ferguson. Presto vi accorgerete che non vuole andare da nessuna parte, pagherete e via di nuovo per strada, che il viaggio è ancora lungo.

Quello che, con ogni probabilità, non farete, è invece una delle due cose seguenti: non vi rivolgerete all’avventore con piglio deciso e non gli direte: «Mi scusi se mi intrometto, signore, ma le opinioni storiografiche espresse poc’anzi ignorano una grande quantità di fatti ormai accertati non dico in bibliografia, ma persino nei più basilari testi di divulgazione», mettendovi dunque a illustrare la schiacciante superiorità di risorse alleata e il deficit della produzione interna tedesca. Tantomeno vi metterete a gridare «Fermi tutti! In questo locale si fanno discorsi revisionisti, e ciò non è accettabile in un paese civile. Nessuno lascerà il rinomato Bar Collo fino a quando non avremo affrontato alla radice le cause di queste prese di posizione intollerabili in una società civile».

In breve, alle parole dette da una persona totalmente sconosciuta in un luogo pubblico, parole che tra l’altro dimostrano la sua pochezza umana e intellettuale, non darete nessun peso. Non riterrete importante rispondere.

 

Qualcuno ha torto su Internet!

Eppure, negli ultimi tempi il discorso pubblico in Rete intorno ad alcuni eventi sembra monopolizzato da quelle opinioni irrilevanti e soffre di un atteggiamento che chiamerei “la caccia al cretino”. L’ultimo esempio è di pochi giorni fa. Poco dopo le dieci di sera di martedì le agenzie di stampa hanno battuto la notizia che il Presidente Emerito della Repubblica Giorgio Napolitano era stato ricoverato a Roma per un malore e, nell’arco di pochi minuti, è diventato chiaro che la situazione clinica era piuttosto grave. Napolitano è stato operato d’urgenza al cuore.

Ciascuno vive nella propria bolla informativa, naturalmente, ma per quanto mi riguarda intorno alle dieci e trenta si potevano vedere sulle mie timeline dei social parecchi messaggi di persone che esprimevano non tanto cordoglio e solidarietà umana quanto indignazione perché qualcuno, su quegli stessi social, augurava il peggio al presidente emerito. La mattina dopo, stesso mix: da una parte gli aggiornamenti sulla salute di Napolitano, dall’altro un bel numero di persone che trasmettevano disgusto per i “miserabili”, gli “schifosi” e così via.

Primo fatto curioso. Mentre i messaggi di indignazione ottengono naturalmente grande visibilità e diffusione, nessuno degli auguri per il peggio mi è ancora passato davanti, dopo diverse ore.

Questa denuncia del cretino è diventata quasi uno sport nazionale. Tra le sue prime manifestazioni - forse la prima - ci sono probabilmente i collage di commenti di Facebook che raccoglievano opinioni razziste o sessiste, con toni spesso disgustosi, che erano assai di moda qualche anno fa; oppure la denuncia delle opinioni altrettanto disgustose di chiunque avesse una qualsiasi carica pubblica, di solito il consigliere comunale in un paesino di settecento abitanti.

I collage, in particolare, sono un buon esempio del passaggio dalla “denuncia” alla “caccia”. Sotto i post pubblici di un qualsiasi ministro è normale aspettarsi centinaia e centinaia di commenti, e diverse volte alcune persone hanno impiegato almeno un po’ di tempo per creare una selezione dei peggiori, ricomporli in un’immagine rettangolare e promuoverli sui propri profili social. Poi, nel breve periodo in cui l’odio online è sembrato essere la cosa principale di cui discutere, sono seguite le inchieste che sono andate a scovare qualcuno di questi haters e lo hanno intervistato per iscritto o messo davanti a una telecamera. Scoprendo, sorpresa, che si trattava quasi sempre di persone che non avrebbero augurato la morte a nessuno di persona, che non si trattava di cellule dormienti del Ku Klux Klan, né di neonazisti assetati di sangue.

Nella stragrande maggioranza dei casi - vorrei dire in tutti i casi - si trattava di persone che non comprendevano le dinamiche di base dell’interazione online, utenti così sprovveduti da non accorgersi di quanto fosse stupido scrivere frasi violente o razziste sotto il profilo di un personaggio pubblico. Gran parte di loro - qualcuno è stato raggiunto da denunce o gli sono arrivati a casa i carabinieri, se non ricordo male - si metteva a piangere o chiedeva scusa, con un misto di stupore e imbarazzo. Magari pensavano che solo i loro amici avrebbero letto quel commento, magari non si sono neppure posti il problema, magari per un attimo hanno voluto dare sfogo a una frustrazione personale.

Il punto qui non è tanto capire quali siano stati i loro meccanismi psicologici, ma quali siano i nostri. Mi chiedo per quale motivo ci sembra interessante o importante dare spazio alle opinioni di persone comuni, evidentemente non in grado di gestire il proprio profilo social né di capire il suo funzionamento basilare. Per quale motivo, insomma, ci sembra opportuno irrigidirsi e moltiplicare l’audience di opinioni estreme e sgradevoli. Ma soprattutto di nessun rilievo, non rappresentative, non meritevoli di discussione o di risposta.

È come se nel bar lungo la strada decidessimo di piantare un casino con una persona che non conosciamo, senza renderci conto che questo ci espone soltanto al ridicolo.

L’igiene del dibattito pubblico è affidata a tutti quelli che partecipano, e mi sembra un’idea di igiene basilare che opinionisti, editorialisti, deputati (alcune delle categorie che si sono esercitate nella caccia al cretino, nei giorni scorsi) non usino la propria forza, diciamo così, mediatica, per dare spazio al peggio che circola nella Rete. E altrettanto basilare mi sembra riconoscere che bollare di “miserabili”, “schifosi” e dintorni persone distanti e, nella stragrande maggioranza, comuni, è un comportamento (verbalmente) violento.

Quelle opinioni vanno condannate? Certo che sì. Ma sarebbe bello se ci fosse un grado minimo di rilevanza richiesto, se per avviare per l’ennesima volta il discorso sull’odio online fosse necessario, per lo meno, un livello minimo di diffusione. Esiste oggi, con ogni probabilità, un problema di razzismo e di sessismo nel discorso pubblico, ma andare alla ricerca - e qualche volta attivamente in caccia - di ogni singola opinione inaccettabile non serve a nulla.

Le frasi condannabili arrivano da un senatore, un personaggio davvero pubblico, un gruppo organizzato? È successo in passato, è il caso di parlarne. Lo dice una persona, con tutto il rispetto, qualsiasi? Passiamo avanti.

So che l’obiezione a questo ragionamento è che qualsiasi opinione è specchio di movimenti più ampi della società, e che un’idea razzista espressa pubblicamente è la punta dell’iceberg di una serie di comportamenti da condannare e combattere. Sono d’accordo. Ma questo principio sacrosanto va temperato con un altro principio, quello dell’adeguatezza dei mezzi, per cui se all’opinione di quattro sconosciuti risponde un deputato con insulti e indignazione siamo davanti a un’esagerazione, nel migliore dei casi, e a un’esibizione un po’ narcisistica e moralista, nel peggiore.

La Rete è come un gigantesco bar lungo la statale. Tra i milioni di avventori, ad andarli a cercare, ci sono neonazisti, nostalgici di Pol Pot, svampiti che parlano per dare aria alla bocca, estremisti di destra, sinistra e centro, annoiati, frustrati e depressi. La varietà è infinita. La domanda è: con chi ci vogliamo mettere a discutere?