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Già negli anni '40, Guglielmo Ferrero sosteneva che in Italia qualsiasi cosa diviene strumento di lotta politica. Non stupisce che nemmeno il calcio, massima espressione del folklore popolare, si sottragga a questa logica. E che la moviola in campo, in un paese con simili caratteristiche, da strumento tecnologico di ausilio ai giudici di gara diventi, esso stesso, strumento di lotta politica - l’ultimo, ma solo in ordine cronologico, di una serie di provvedimenti emanati da chi detta, appunto, la linea politica del nostro calcio.

Entrare nel merito delle polemiche sui casi e gli episodi specifici di ricorso (o mancato tale) al VAR, sulle numerose e talvolta contraddittorie interpretazioni del regolamento da parte degli arbitri, sulle teorie del complotto e della sudditanza psicologica è appannaggio delle testate sportive, che, specialmente nelle ultime settimane, ne trattano in modo perfino morboso. Ben più interessanti ma del tutto assenti dal dibattito, al contrario, sono le riflessioni di carattere più politico - in un certo senso, sociologico - sulla natura del VAR per come viene percepito in Italia.

Il problema, come spesso accadde, non ha origine nella natura dello strumento in sé, ma nella narrazione che ne viene fatta e nella percezione che ne deriva. A scopo, si intende, di lotta politica da parte di una FIGC totalmente delegittimata e che, introducendo la moviola in campo, sperava di recuperare credibilità, e di caccia al consenso da parte di molti giornalisti, commentatori e opinionisti sportivi che, da eredi legittimi della più becera tradizione biscardiana, hanno fiutato l’occasione per fare demagogia a buon mercato.

In un paese dove la comprensione del diritto, in molti casi, non va oltre il Codice di Hammurabi, ha avuto gioco facile lo storytelling che dipinge il VAR come la panacea di ogni male, come lo strumento definitivo che avrebbe districato qualsiasi dubbio e sottratto qualsiasi risoluzione delle controversie all’interpretazione soggettiva e, in quanto tale, fallibile del direttore di gara. Un paese così profondamente giustizialista non poteva che produrre una narrazione in cui il VAR rappresenta il corrispettivo sportivo del giudice Dredd, robot-giustiziere il cui motto è “la legge sono io”.

E il punto è esattamente questo: il regolamento federale, esattamente come la legge, vive di interpretazioni. Il giudice di gara, esattamente come il giudice in un tribunale, è chiamato ad esprimersi su casi particolari e concreti, mentre le fonti si limitano a delineare situazioni generali e astratte. Questa caratteristica, propria del regolamento del calcio e di molti altri sport, è imprescindibile. Non può esistere, non per mancanza di volontà ma per impossibilità oggettiva, un calcio in cui la tecnologia basti a risolvere le controversie di una partita, perché ciò significherebbe dover trattare allo stesso modo situazioni diverse. Sarebbe un calcio distopico che produrrebbe ingiustizie e disparità di trattamento ben più gravi. Ci ritroveremmo ad assistere a partite in cui non verrebbe operata alcuna differenza tra tocco di mano volontario e involontario, tra contatto lecito e sanzionabile, e così via.

Si è tentato, per scopi tutt’altro che nobili, di convincere gli appassionati di calcio che fosse possibile eliminare gli errori - o, ancora meglio - i presunti aiuti arbitrali introducendo uno strumento che rendesse superflua la fase del giudizio umano - soggettivo e fallibile - per dirimere le controversie di gioco. I giudici di gara, che ci piaccia o no, sono ancora lì, con tutti i loro pregi e difetti, perché il gioco non può farne a meno. Proprio ieri, sul Fatto Quotidiano, Lorenzo Vendemiale sosteneva che “ci eravamo illusi che l’introduzione della tecnologia in campo avesse portato finalmente un po’ di giustizia nel calcio italiano”. Ecco, se è vero che il VAR ha disatteso le surreali aspettative di tanti “illusi” (sic.), buona parte della colpa è da attribuire a tanta stampa sportiva che ne ha tessuto lodi non realistiche ad agosto per poi rinnegarla già dopo poche giornate di campionato, traendo guadagno da un perverso cortocircuito del “tanto peggio, tanto meglio”, che, alla luce delle ultime polemiche, garantisce alle testate tante più copie e letture quanti più sono gli errori che gli arbitri commettono nonostante la possibilità di consultare la moviola.

Se, come sostiene qualche demagogo, è vero che è in atto una presa in giro ai danni degli italiani, approfittando della loro innata propensione al tifo da stadio e della loro credulità, a perpetrarla non è certo uno strumento che sta portando il calcio nel terzo millennio, ma chi ha ritenuto di poterlo strumentalizzare al fine di trarre un vantaggio politico o mediatico.