La rivoluzione non è un pranzo di gala, proclamava Mao Zedong. In una Cina a cui non conviene né storicamente né economicamente fare i conti con le ombre del proprio passato, però, si è trasformata (non metaforicamente) in un ristorante a tema. Sic transit gloria mundi.

Brusadelli Mao

Quando nella notte fra l’otto e il nove settembre 1976 - ormai quarant’anni fa - il compagno Mao Zedong si spense a Pechino, buona parte del Partito comunista tirò un sospiro di sollievo. Il Grande Timoniere, leader della resistenza contro i giapponesi e soprattutto della vittoria contro i nazionalisti, padre del comunismo rurale - versione liberamente adattata al contesto cinese dell’ortodossia marxista -, fondatore della Repubblica popolare cinese e unificatore dell’antico Impero sotto il nuovo vessillo rosso, meritava di certo un posto nella storia.

Eppure, le tante ombre che fin dall’inizio avevano accompagnato il progetto maoista (la teoria della rivoluzione permanente, l’ideologia anti-burocratica e anti-borghese applicata allo stesso partito comunista, l’uso dei giovani come folli avanguardie di una costante e violenta rigenerazione sociale, il disprezzo per l’intellettualismo e la teorizzazione della sottomissione della cultura alla politica) si erano a tal punto condensate nel corso degli anni Sessanta da aver rovesciato sulla Cina una tempesta da cui il paese non era ancora riemerso.

Fiaccata dalla violenza della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (1966-1976), la Repubblica popolare colse dunque l’occasione della morte del Grande timoniere per chiudere i conti con il maoismo senza per questo rinnegarne ufficialmente l’eredità. Un capolavoro di pragmatismo che nel giro di pochi anni avrebbe permesso al Paese di passare dalle comuni agrarie alle zone economiche speciali e alle politiche “moderatamente” di mercato elaborate da Deng Xiaoping, dalla carestia e dal caos alla crescita interna e all’apertura al mondo.

Al fervore ideologico maoista si sarebbe sostituita, nel giro di pochi anni, l’anti-ideologia del riformismo denghista: l’idea che in fondo “arricchirsi è glorioso” avrebbe scalzato gli slogan maoisti come dottrina di Stato. E mentre il paese cambiava volto, avviando una crescita economica senza precedenti e preparandosi ad entrare nel ventunesimo secolo con le vesti della potenza globale, il maoismo restava imbalsamato come il corpo del suo leader, oggetto di una memoria rispettosa ma di un’altrettanto necessaria archiviazione.

L’eredità di Mao? Settanta per cento giusta, trenta per cento sbagliata. Questa la contabilità della storia che ancora oggi è verbo ufficiale nella Repubblica popolare. La scelta di non rinnegare il passato per evitare di lacerare un partito già scosso, ma di tradirlo di fatto nelle scelte politiche, si rivelerà alla lunga un’idea vincente per il Partito comunista, capace di consolidare la tenuta del potere e soprattutto di far accettare le ricadute negative delle riforme degli anni Ottanta (aumento delle disuguaglianze, perdita delle garanzie) a una società abituata all’utopia egualitaria; perché in fondo “qualcuno dovrà arricchirsi prima degli altri”, come amava dire Deng. Sopire i conti con la storia, anziché chiuderli.

Non stupisce, dunque, che in questi mesi il cinquantennale dell’avvio di quella Rivoluzione Culturale che segnò il punto più basso della stagione maoista non sia divenuto occasione per una riflessione collettiva sulle cicatrici di un decennio di follie.

Lanciata nel 1966 come il ruggito di Mao contro il suo stesso partito, la Grande Rivoluzione Culturale fu il tentativo di servirsi del fervore ideologico degli studenti per “bombardare il quartier generale” comunista, laddove già si lavorava a un superamento delle politiche fallimentari dei “grandi balzi” che avevano portato la Cina sull’orlo della carestia.

Ma le forze scatenate dal Grande Timoniere si rivelarono difficili da controllare, e il paese precipitò presto nel caos: le giovani guardie rosse, chiamate alla crociata per la rigenerazione del fervore rivoluzionario, si riversarono come cavallette sull’intero territorio cinese, con la protezione e l’appoggio dell’esercito - denunciando i quadri del partito troppo “imborghesiti”, rieducando gli intellettuali ormai troppo lontani dalla campagna, aggredendo i “controrivoluzionari” pronti ad abbandonare e tradire la via della rivoluzione. Dopo anni di guerra civile, Mao si convinse a spegnere l’incendio scatenando l’esercito contro le “sue” guardie rosse: il timoniere poneva fine al caos divorando i suoi figli.

Le dimensioni effettive della tragedia restano ancora vaghe, le ricerche storiche non sono facili; come si è detto, il riformismo post-maoista ha preferito congelare la storia recente più che analizzarla: nessuna elaborazione del lutto, nessuno spiraglio per una critica complessiva del periodo. Troppo rischioso, per un partito che non accetta - per evidenti ragioni - narrazioni alternative.

Ecco dunque spiegato il silenzio che ha circondato l’anniversario. Un silenzio rotto solo, e non a caso, da un editoriale ufficiale, apparso il 15 maggio sul Quotidiano del Popolo, in cui alla ferma condanna degli eccessi della Rivoluzione culturale faceva seguito la magnificazione dei grandi progressi compiuti dal partito per portare la Cina nel novero delle potenze mondiali. Più che una riflessione storica, un meno originale invito ai cinesi a “stringersi attorno” al presidente Xi Jinping, con la fiducia che - come ribadiva in un altro articolo il magazine “patriottico” Global Times – “quegli eccessi non potranno mai più ripetersi” sotto la guida ferma del Pcc.

Eppure, “più passa il tempo, più diventa difficile riconoscere gli errori”, si preoccupa il sociologo Dai Jianzhong, sentito di recente dal New York Times: “la chiusura intellettuale ha reso le giovani generazioni del tutto ignoranti del loro passato”. L’impossibilità di studiare quel passato pare accentuata dalla scelta del presidente Xi di stringere le maglie del controllo ideologico da parte del partito su qualunque forma di produzione intellettuale: la necessità di rafforzare il nazionalismo cinese - come unica via per tenere insieme una società sempre più complessa, differenziata e gerarchizzata - trasforma la storia in un terreno quanto mai delicato.

E così, se la rinascita, sponsorizzata dall’alto, del culto di Confucio testimonia la volontà del Pcc di riappropriarsi del passato imperiale per riutilizzarne il materiale ideologico nel ventunesimo secolo, il culto di Mao non viene messo in discussione ma nemmeno eccessivamente incentivato. Le sue luci sono patrimonio comune della Cina, si dice; le ombre vengono sì riconosciute, ma rigorosamente tenute a distanza.

Ed ecco che la rimozione forzata della tragedia maoista si manifesta in episodi che davvero - come ha sottolineato lo psicanalista Thomas Plänkers sul blog Sinosphere, tracciando interessanti paralleli con la Germania post-nazista - esprimono tutto il dramma dell’alienazione e della mancata elaborazione del passato. Negli ultimi anni, mentre le memorie personali di famiglie distrutte e vite spezzate sono rimaste nel silenzio, si sono visti studenti festeggiare la fine degli studi travestendosi da guardie rosse e inscenando, sorridenti, una sessione di rieducazione (è successo nel 2014 nella città di Harbin, a confermare i timori del professore Dai); sono sorti, nelle maggiori città cinesi, ristoranti che promettono una nostalgica immersione nell’esperienza della Rivoluzione culturale proletaria, fra canti di gruppo, cameriere in divisa, arredamenti rurali, cucina semplice e (anche qui) goliardiche sessioni di rieducazione (fenomeno peraltro analizzato già dieci anni fa dalla studiosa Jennifer Hubbert su The China Review).

E così, mentre la storia resta in Cina - come nella lunga stagione dell’Impero - strumento politico e “centralizzato”, il ricordo della rivoluzione – che, come diceva Mao, non è certo un pranzo di gala - è già diventato un innocuo (e inquietante) ristorante a tema.