Anarchia romanzo fede

Cosa accomuna la religione, la letteratura e, persino, la politica? A voler seguire Antonio Di Grado, in una delle sue ultime fatiche letterarie (Anarchia come romanzo e come fede, Ad Est dell’Equatore 2015), il filo rosso tra religione, politica e letteratura sarebbe l’anarchia. Sì, proprio l’anarchia.

E anarchico è questo libro che si legge tutto d’un fiato, nonostante la gran messe di riferimenti colti e letterari che non ne appesantiscono il respiro. E lascia il segno. Come un romanzo e come la rivelazione di una fede. Anarchico (anche nel metodo) perché il rigore dell’italianista lascia spazio al “nomadismo” del comparatista, senza un partito ed una patria letteraria di riferimento.

In un’epoca di potere “polverizzato, astratto e virtuale”, Di Grado si rifugia in una “patria” di anarchici, sì, ma “con riserva”, potremmo dire parafrasando Edmondo Berselli. Perché da Gesù al suo doppio, il tragicomico personaggio Giuda prodotto della fervida fantasia di Giuseppe Lanza del Vasto, passando per Gandhi, Simone Weil e gli amletici personaggi di De Roberto, Conrad, Tolstoj, Dostoevskij, Jahier, Silone, Sciascia e Simenon persino, gli anarchici che sfilano in questo “romanzo” hanno tutti in comune lo scetticismo, persino nei riguardi della fede anarchica che professano. E l’inquietudine religiosa piuttosto che la passione politica.

Si potrebbe allora dire che, forse, sia proprio la religione il filo rosso che si dipana in questo libro attraverso la letteratura e l’anarchia. E la politica? La politica fa soltanto capolino. Oppure pervade profondamente tutto il libro, nella misura in cui riconosciamo che l’anarchia, per Di Grado, insiste soprattutto sul piano etico. Ed è all’etica, intrisa di una religione laica e paradossale, che tocca rigenerare la politica. Anche, perché no, attraverso la letteratura.

E la religione, ancora, è l’origine e la maggiore fonte di ispirazione della letteratura tutta. Che è sempre “ierofania”, vertiginosa manifestazione del divino, dell’essenza ultima delle cose, di un oltre.

Anarchici con riserva, dicevamo, oppure anarchici “in vestaglia” come preferisce il nostro autore, di un’anarchia “placida e smagata” come quella di Simenon. Ribelli, piuttosto che rivoluzionari. Come Gesù, “divino anarca”. Perché il rivoluzionario vuole rifondare un ordine costituito, mentre il ribelle si limita a decostruire, opponendosi all’ordine esistente.

E non era forse un ribelle Gesù che demonizzava l’intellighenzia del tempo, i Farisei, cacciava i mercanti dal tempio e non riconosceva l’effige dell’Imperatore sulla moneta? Il “Rendete a Cesare quel che è di Cesare” non rivelerebbe, infatti (anche alla luce dell’acuta analisi filologica di Reza Aslan, opportunamente riportata), un Gesù antesignano della moderna dottrina liberale dello stato, ma il ribelle, il “lestes” che il diritto romano riconoscerà e punirà con la morte di Croce per anarchica “lesa maestà”.

Ed è un ritratto di Gesù controcorrente e accattivante quello che, con filologica acribia, ci offre Di Grado. Un ritratto che, desunto prevalentemente dal più antico dei Vangeli (quello di Marco), non ha paura di svelarci un Gesù “politicamente scorretto” che, taumaturgo e guaritore prima che profeta, ingaggiando una strenua lotta a tu per tu coi “demoni” – come a Gerasa – sa, “ben prima di Freud e Jung che sono Legione: una pluralità rissosa di pulsioni” e di istinti.

Spirito inquieto, laico e “religioso” ad un tempo, ribelle persino nei riguardi del suo Padre celeste, Gesù non sembra fondare alcuna religione. Sarà Paolo di Tarso a fondare, istituire, propagandare il cristianesimo.

Ed è proprio Gesù l’antesignano di quella fitta serie di personaggi letterari che animano questo libro corale. Dai protagonisti di Imperio e Spasimo di De Roberto, ai “moralisti” vociani – che si agitano nelle riflessioni su peccato e responsabilità -, passati in rassegna. Per tutti, cattolici o protestanti, è Gesù, piuttosto che Bakunin, il padre dell’anarchia. Ed è la carità cristiana a sconfiggere la legge, come in un romanzo di Tolstoj. Come nel profondo sincretismo religioso di Simone Weil.

All’errore del razionalismo cartesiano (che separa e disgiunge ciò che in Natura non è separabile), l’anarchico preferisce l’errare tra le sentine del vizio e del peccato, “bruciante desiderio e sano di vita e di colpa” scriverà Boine (mentre per Giuseppe Lanza del Vasto "Il piacere è vana cosa per chi non sa dare al piacere peso di peccato, decoro di rischio, profondità di dannazione, misura d'eterno"), dove la ragione ama essere in pericolo e l’esprit de finesse minaccia l’esprit de géométrie.

L’anarchico, allora, convinto come Jahier che "colui che crede non è l'uomo al riparo ma l'uomo esposto a tutto il mondo; in una posizione di pericolo", piuttosto che trovare riparo tra le certezze del cogito cartesiano, preferirà perdersi tra le ambagi del desiderio. Preferirà desiderare per essere, piuttosto che “pensare”, alla maniera di Cartesio. Obbedendo allo spirito piuttosto che alla ragione, in una lotta a morte con l’angelo, oscillando sempre tra la legge e la grazia, la ragione e lo spirito.

Ma chi sarà allora il peggiore nemico di questa galleria di personaggi e scrittori animati da “sconfinata libertà”, “mitezza e ironia”, “felice incoerenza”? Lo Stato. Lo Stato inteso anche come l’universale concreto del razionalismo occidentale e della scienza classica riduzionista. Quello Stato definito da Alberto Savinio il “nemico invisibile e il più pericoloso”, perché prima di essere lo Stato, “è il participio passato di stare, cioè a dire di un verbo che significa cessare il moto, fermarsi, rimanere”. Quello stato contro cui si scagliava Sciascia al tempo del delitto Moro, peggio ancora se nella variante di Stato etico.

Uno Stato cui opporre, all’insegna di una nuova razionalità e di una “gaia scienza” (oggi incarnata dalla scienza della complessità), le incertezze, la libertà e il divenire della natura (e della storia) dove, come ci ricorda Fritjof Capra “non c’è alcun “sopra” o “sotto”, e non esistono gerarchie. Ci sono solo reti dentro altre reti”.