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Dal 19 aprile 2017 è entrato in vigore il decreto che obbliga a indicare in etichetta il Paese d'origine del latte nelle confezioni dei prodotti lattiero-caseari. È una norma che porta la firma di due ministri - Maurizio Martina (Mipaaf) e Carlo Calenda (Mise) - ed è stata fortemente voluta dalle associazioni degli allevatori perché, al di là della facciata in cui c'è scritto "trasparenza per il consumatore", la sostanza è di tipo protezionistico, e mira chiaramente a spingere i consumatori a comprare e consumare 100% italiano.

Intendiamoci: conoscere qualcosa in più di un prodotto, come appunto il paese d'origine della materia prima o quello della sua trasformazione, è in astratto una buona cosa per noi consumatori e non criticabile come tale. Più informazioni chiare abbiamo, più abbiamo la possibilità di effettuare scelte consapevoli. Ma il punto è che la norma - che è introdotta in via sperimentale fino al 31 marzo del 2019, sempre che l'Ue non provveda per conto suo a normare la questione - va inserita nel contesto in cui è nata: nel Paese che importa il 40% del latte che gli serve tra consumi interni e il tanto decantato export (con un tasso di auto-approvvigionamento del 77%); in cui si è fatta la "guerra del latte" tra allevatori (Coldiretti) e produttori (stranieri: Lactalis); in cui il Made in Italy è considerato sinonimo di maggiore qualità (basti pensare alla nuova "guerra del riso"); in cui il ricorso alle materie prime dall'estero è spesso nascosto per vergogna (come nel caso dei mangimi nella filiera zootecnica utilizzati per la produzione anche dei Dop e Igp) o demonizzato e tacciato di scarsa qualità e sicurezza nonostante i controlli (come avviene per le cagliate), come se nel resto del mondo ci fosse la gara ad auto-intossicarsi e coinvolgere l'Italia in questo macabro gioco.

Le etichette obbligatorie recentemente introdotte, d'altronde, tendono proprio a privilegiare ed esaltare il Made in Italy creando tra i produttori una differenziazione artificiale tra chi è italiano vero, italiano a metà o straniero, generando una sorta di classifica morale tra i produttori, cercando di marchiare a fuoco quelli che si sporcano guardando all'estero. Il discrimine non è dato dunque dalla qualità intrinseca del prodotto che arriva in tavola, dalla sua specificità, dalle sue proprietà, dal suo gusto, ma è "imposto" per legge da un solo generico parametro: la nazione di provenienza del latte.

Sul punto è difficile non dare ragione a Roberto Brazzale, produttore del Gran Moravia (formaggio di tipo grana, di grande qualità, prodotto in Repubblica Ceca) quando scrive su Facebook che «lo scopo non dichiarato, perciò, è quello di “marchiare” i prodotti italiani che usano in tutto o in parte materia prima non nazionale per poi farne oggetto di campagne denigratorie più o meno velate al fine di suggestionare e condizionarne la scelta del consumatore sul falso presupposto di una minore qualità della materia prima estera, per far aumentare domanda e prezzi dei prodotti realizzati con quella italiana». Ovviamente Brazzale è una parte in causa, ma è anche uno che volontariamente già fornisce al consumatore informazioni molto dettagliate sui suoi prodotti e la provenienza delle materie prime, facendone anzi un vanto (compresa l'impronta ecologica e idrica, che è una rarità eppure dovrebbe essere fondamentale per una scelta consapevole per noi consumatori).

E si badi bene inoltre a un altro particolare: la differenziazione avviene solo tra produttori italiani, perché è solo per loro che vale l'obbligo, mentre i produttori lattiero-caesari che fabbricano e commercializzano legalmente in un altro stato membro dell'Ue, esportando in Italia, ne sono esplicitamente esclusi. È evidente allora che il decreto non mira tanto a garantire una maggiore informazione per il consumatore, quanto invece a privilegiare e spingere per via indiretta - e tanti saluti alla concorrenza - la produzione lattiera italiana o, per usare le parole del ministro Martina, «tutelare il Made in Italy, il lavoro dei nostri allevatori e far crescere una vera e propria cultura del cibo». 

Cultura del cibo che però non cresce così: conoscere il Paese in cui è stato prodotto o trasformato il latte non ci dice niente di niente sulle sue caratteristiche e il nuovo obbligo ha tanto la forma di uno specchietto per le allodole, di un pugno di mangime da far beccare al piccione-consumatore. Perché comprare un formaggio e leggere nell'etichetta "origine del latte: Italia" (oppure, "Paese di mungitura: Austria" e "Paese di consizionamento o trasformazione: Italia) non ci dice granché su quel formaggio e ancora meno su quel latte. Anzi, nel Paese in cui ogni specificità locale sembra dover per forza essere inglobata in un disciplinare e meritare il riconoscimento di marchi di qualità e protezione, questa misura potrebbe avere la conseguenza indesiderata di standardizzare nella mente del consumatore la grande varietà di produzioni lattiere italiane, dalle Alpi alla Sardegna, dalle stalle ai pascoli liberi con l'effetto reale di bollare a livello psicologico la produzione estera come qualcosa da cui stare alla larga. E, soprattutto, sempre dal lato del consumatore, non ci dice nulla sulla qualità di quel latte, perché che "Italia" equivalga a "qualità" è semplicemente una favola.

Ora possiamo citare anche Slow Food e il presidente italiano Gaetano Pascale, che pur plaudendo all'introduzione della norma, non tralascia la questione fondamentale che rimane aperta: «Leggere in etichetta il Paese di origine del latte o, meglio ancora, degli allevamenti da cui proviene - scrive sul suo blog su Il Fatto Quotidiano - è un’informazione utile a sensibilizzare quei consumatori propensi a sostenere la produzione nazionale, ma non dice nulla sulla qualità intrinseca del prodotto, salvo lasciar intendere che il latte italiano sia tutto di qualità migliore rispetto a quello che proviene dall’estero. Da tempo, ormai - prosegue Pascale - gli studi scientifici certificano che la qualità del latte, sia quello da consumare come tale sia quello destinato alla produzione di formaggi e latticini, è correlata al tipo di alimentazione degli animali, alla possibilità che hanno di pascolare oppure no, alla quantità di latte prodotta per ogni capo, alla razza».

Un'analisi che - nonostante la marcata differenza di posizioni - non stona con quella di Brazzale quando afferma che il nuovo obbligo offre un'informazione «priva di qualsiasi pregio distintivo considerato che l’Italia è un paese che presenta infinite differenze in termini di clima, qualità del latte, modalità di allevamento, tipologie di foraggio usate, condizioni ambientali e presenza di inquinanti. Il consumatore non conoscerà la precisa provenienza del latte (Seveso, San Giuseppe Vesuviano o Asiago?), né la provenienza delle materie prime usate dagli allevatori (azienda stessa, Spagna o USA?)».

Il nuovo provvedimento non ci rende consumatori più informati e consapevoli, ma ci illude accarezzando - come se ce ne fosse davvero bisogno - il nostro patriottismo culinario. E d'altronde, in tempi di protezionismo di ritorno come questi, c'è poco da stupirsi.