L’informazione è il nostro pane quotidiano e noi diventiamo sempre di più quel che mangiamo. E' un problema serio, perché né l’etica professionale di editori e giornalisti né la risposta del mercato dei fruitori sono elementi sufficienti a garantire la qualità dell’informazione.

shiva

Non è uno scenario distopico, è lo stato attuale dell’informazione: un giorno scoprite che alla mensa scolastica viene servito ai vostri figli cibo avariato, ma loro non protestano perché si sono abituati e ormai iniziano a farvi pressioni per comprare pomodori marci e yogurt scaduti. Vogliono che anche voi li mangiate e quando, disperati, cercate di spiegare loro che quel cibo fa male, loro vi rispondono che siete voi ad essere obnubilati dalle vostre abitudini. Arrivano a difendere la dissenteria imperiosa che per loro è norma: le feci dure fanno male, prova tangibile che anche voi dovreste iniziare ad apprezzare il cibo avariato.

Da quando è comparso sulla Terra, circa 200 mila anni fa, fino ad una sessantina appena di anni orsono, la prima preoccupazione di Homo Sapiens è stata quella di trovare e selezionare cosa mettere in bocca: nutrirsi era il problema principale. Mia nonna, nata ai primi del novecento, non iniziava conversazione senza pormi prima la fatidica domanda: “hai mangiato?”. Oggi la qualità della vita non dipende più da cosa mettiamo in bocca, perché il progresso scientifico e lo sviluppo di efficienti organismi di controllo nazionali e internazionali hanno permesso di raggiungere un elevato livello medio di qualità e quantità di cibo per la maggior parte degli abitanti del pianeta.

Superata la pressante necessità di alimentazione, si è diffusa a livello globale una nuova necessità, quella di informazione. In realtà si tratta di una vecchia necessità, comune a tutto il regno dei viventi, solo che nell’uomo sono cambiate le modalità: grazie alla scrittura e ai mezzi di comunicazione abbiamo aggiunto la marcia veloce della conoscenza condivisa alla marcia lenta dell’apprendimento individuale e a alla marcia lentissima dell’evoluzione genetica.  Questa nuova modalità ha permesso passi avanti enormi, come appunto l’incremento delle aspettative di vita e la diffusione del benessere, ma oggi potrebbe avere raggiunto una fase di stallo: specializzandosi, spingendosi sempre più lontano in direzioni esponenzialmente divergenti, le vette della conoscenza sono sempre più lontane dal senso comune.

E’ così da sempre, si dirà. Anzi, oggi l’accesso al sapere è sempre più diffuso. Vero, però ciò che è cambiato, o si cerca di cambiare, è l’orientamento democratico delle decisioni: il luogo in cui si esercita il potere - o si auspica che si eserciti - è il pubblico, l’espressione del senso comune. Allora questa distanza tra la conoscenza specializzata ed il senso comune può avere ripercussioni sulla crescita e sul benessere di tutti. Il problema non è più riducibile - come forse poteva essere in passato - alla scolarizzazione del “popolo ignorante”, o all’elezione di un gruppo ristretto di saggi, perché le conoscenze specialistiche che richiedono continue decisioni sono talmente distanti l’una dall'altra che anche chi è esperto in un determinato settore si ritrova comunque nei pressi della “base” del senso comune per il restante 99,9% dei problemi.

Ci troviamo dunque nell’apparente paradosso per cui l’aumento di conoscenza condivisa ha prodotto un aumento di ignoranza individuale incolmabile e imprescindibile. In realtà la conoscenza individuale, in termini assoluti, è aumentata, ma in termini relativi è in continua diminuzione: più una persona vuole approfondire un certo settore, meno avrà tempo per tutto il resto e più si allontanerà dalla comprensione immediata degli altri settori. Che poi è il motivo per cui Leonardo da Vinci o Pico della Mirandola sarebbero oggi solo dei dilettanti. Ma se il paradosso della conoscenza in termini assoluti è apparente, le ripercussioni nella vita di tutti i giorni sono molto reali: come facciamo a fronteggiare le scelte che un sano progresso democratico impone a tutti i cittadini? Nucleare sì o nucleare no? Ogm sì o ogm no? Il salario minimo può dare maggiori garanzie ai lavoratori? Gli F-35 ci servono davvero? Stamina è una terapia? Bisogna portare i Bronzi di Riace a Milano o lasciarli in Calabria?

Ci troviamo in una situazione di possibile stallo in cui l’efficacia decisionale è minata dall’estrema polarizzazione delle conoscenze: se non si riesce in qualche modo a mettere in comunicazione le vette di conoscenze tecniche, sia tra di loro che con il senso comune, il rischio è che le decisioni politiche non siano ottimali e che il progresso deceleri, si fermi, o addirittura regredisca. Un rischio che, a fronte delle previsioni di crescita della popolazione mondiale a 9 miliardi di individui nei prossimi trent’anni, non possiamo permetterci. 

Come fare quindi per ottenere, o provare a ottenere, i risultati migliori? Dovremmo conformarci ad alcune regole non scritte: un principio di affidamento, seguito da uno di rappresentanza e uno di responsabilità. Se fossero regole scritte, il principio di affidamento reciterebbe più o meno così: “chiunque non sia esperto in un determinato ambito deve assumere per vere solo le informazioni raccolte attorno al consenso della maggioranza degli specialisti di tale ambito”. Il principio di rappresentanza, da applicare nei casi di incertezza, potrebbe essere: “sono rilevanti solo le posizioni basate su fatti e dati condivisi e verificabili, prodotti da persone competenti” e quello di responsabilità dovrebbe imporre a chi lavora in ambito mediatico di non mettere mai sullo stesso piano le opinioni che non rispettano i due principi precedenti.

Purtroppo l’informazione oggi si basa su due principi opposti: il principio di sensazionalità e quello di equilibrio. Le notizie e le inchieste devono essere sensazionali: in positivo o in negativo, ma di solito quelle allarmanti attirano più attenzione, come per esempio gli annunci sulle varie scoperte delle aree cerebrali dell’amore, della creatività, della precisione e così via, o le infami campagne su cure miracolose, da Di Bella alla dieta vegana, dai santoni a Stamina. E’ poi pressoché egemone la convinzione che sia necessario essere “equilibrati”, cioè che si debba dare sempre spazio al contraddittorio, non importa se totalmente irrilevante per la comunicazione stessa del problema, ma fondamentale per scacciare l’aurea di parzialità che in un pubblico ammaestrato renderebbe inaccettabile qualsiasi messaggio. Purtroppo questa forma di par condicio è quanto di più fuorviante ci possa essere, perché presenta la posizione del “contraddittore” come se fosse alla pari di quella della maggior parte degli esperti, sminuendo di conseguenza quest'ultima e facendo credere che ci sia una divisione tra gli esperti.

E’ poi un atto di irresponsabilità intellettuale riecheggiare le vicende di Galileo o qualche altro genio che si è trovato in passato a fronteggiare il dissenso: prima di tutto all’epoca di Galileo non esistevano le riviste scientifiche, quei poli attorno a cui si forma il consenso. Gli specialisti di un campo di ricerca si conoscevano per nome e si scambiavano informazioni per via epistolare. Poi perché - allora come spesso oggi - il dissenso non veniva dagli esperti, ma da quelli che Galileo chiamava “filosofi in libris”: opinionisti di ogni estrazione che pretendevano di aver ragione tramite argomentazioni ideologiche e senza basarsi su fatti sperimentali riproducibili. 

Quindi, nei casi in cui i giornali riportino effettivamente un contraddittorio “tecnico” - casi rarissimi, dato che il luogo naturale di un confronto tecnico è una rivista di settore piuttosto che un quotidiano - bisognerebbe dar voce ai risultati di ricerca piuttosto che alle opinioni. Sempre consapevoli del fatto che, se la comunità scientifica li rifiuta, probabilmente sono fallaci ed il contradditore è solo in cerca di un qualche ritorno mediatico, economico o politico.

Un esempio lampante di come questi principi distorcano la realtà lo ha dato Federico Rampini, che in prima pagina di Repubblica (3 ottobre 2014) ha deciso di dare voce a Vandana Shiva con un’intervista che è una sintesi del cattivo giornalismo appena descritto, quanto di più lontano dai principi di comunicazione che potrebbero permettere al senso comune di prendere scelte più consapevoli. Tornando all’analogia iniziale, Federico Rampini ci ha servito cibo avariato, presentato come raffinatissima cucina gourmet internazionale. Il problema non è tanto che le risposte della Shiva siano la solita solfa che propina probabilmente a tutti quelli con cui parla. Il problema sono le domande di Rampini: pseudo-domande aperte che sembrano studiate apposta per permettere una replica che tolga l’attivista e le sue posizioni dal totale discredito in cui erano state gettate da una recente, e molto approfondita, inchiesta del New Yorker. Qualche esempio?

Rampini inizia sostenendo che la Shiva “ribatte, una per una, alle accuse del settimanale statunitense”. Poi arriva la prima pseudo-domanda di Rampini: “Lei è o non è una scienziata? Dove ha studiato?”

Potrebbe sembrare una schietta messa al muro, una richiesta diretta di assunzione di responsabilità da grande giornalista. In realtà si tratta di un assist che permette alla Shiva di illudere il lettore che sia effettivamente una “scienziata” in quanto, udite udite, ha fatto “un dottorato e un master in fisica”. Rampini si deve essere dimenticato che uno “scienziato” è internazionalmente riconosciuto come tale solo se fa ricerca e pubblica articoli su riviste peer review che sottopongono alla revisione tra pari i risultati delle sue ricerche, che vengono discussi da tutte le persone che al mondo si occupano di quell’ambito. Le ricerche vengono citate, controcitate, criticate e confermate, oppure ritirate in quanto inadeguate. Insomma nella scienza il vero banco di prova sono le riviste di settore. Perché allora non porre alla Shiva una domanda vera, del tipo “quanti articoli su riviste peer review ha pubblicato per sostenere le sue affermazioni contro gli ogm”? L’eroina indiana non avrebbe potuto fare altro che cercare di screditare le riviste, sostenendo, come spesso ha fatto, che le riviste sarebbero al soldo delle multinazionali, ma almeno al lettore sarebbe potuto suonare un campanellino di allarme di fronte ad una che dà la colpa alla maestra per non aver fatto i compiti a casa.

Rampini deve essersi dimenticato come si fanno le domande per evitare che un abile affabulatore possa rigirarle a proprio vantaggio. Come quando fa finta di metterla di fronte ai “fior di scienziati autorevoli, non al servizio delle multinazionali” che difendono gli OGM. Qui la domanda non c’è nemmeno e la Shiva ha gioco facile a dare una non-risposta che salta di palo in frasca: “non si deve poter brevettare una pianta”. A Rampini non passa nemmeno per la testa di farle notare che questo è un tema politico ed economico, discutibilissimo, ma che non può essere portato come giustificazione per calpestare i fatti e divulgare falsità del tipo “gli ogm fanno male alla salute” o “gli ogm provocano suicidi”. Ma Rampini è il primo a chiudere un occhio sulla realtà quando dichiara incredibilmente che “La comunità scientifica non è compatta, in realtà”. Lo dimostrerebbero le lettere al New Yorker. Stiamo scherzando?

E’ evidente ormai che Rampini soffre della sindrome della bilancia, per cui deve mettere qualsiasi cosa sullo stesso piano del suo contrario. Lo invito a leggersi questo parziale elenco di decine di autorità internazionali - tra cui ci sono anche 14 tra accademie, istituzioni e università italiane - che hanno prodotto documentazioni scientifiche per sostenere l’ingegneria genetica applicata ai prodotti alimentari. Documentazioni scientifiche: mi rendo conto che non abbiano l’appeal delle favole di una indiana sorridente, ma il lavoro del giornalista dovrebbe essere quello di informare al meglio. Prima che vi facciate prendere dalla sindrome di Shiva, c’è anche qualcuno che ha controllato le oltre 1200 pubblicazioni che confermano la sicurezza degli Ogm: più della metà sono ricerche finanziate da enti pubblici.

Non passano nemmeno 24 ore che arriva un altro grande giornalista a presentare opinioni personali alla pari, se non addirittura al di sopra, della maggioranza degli esperti. Dalla sua “Amaca”, su cui deve essersi assopita anche la coscienza giornalistica che imporrebbe di verificare un fatto prima di presentarlo come una certezza, Michele Serra tuona: “la rude semplificazione biologica indotta dagli ogm, che colonizzano immense porzioni di pianeta distruggendo ogni biodiversità, è un cambiamento di gigantesca portata”. Serra confonde la tecnica di produzione dell’ingegneria genetica, con la pratica di produzione in monocoltura, che è indipendete dal seme che si utilizza. E a quali pregiudizi allude quando tira fuori dalla migliore tradizione dei filosofi in libris la supercazzola del “fronte scientista” che non sarebbe disponibile a “mettere in discussione i pregiudizi di casa propria”? Secondo il mio vocabolario di freddo scientista, che ha la noiosa abitudine di definire i termini che usa, il “pregiudizio” è una convinzione mantenuta senza il riscontro coi fatti. Un po’ come dire che “gli ogm distruggono la biodiversità” quando nelle nostre università pubbliche - non nei laboratori delle multinazionali del profitto - nel 1998 il gruppo di ricerca guidato da Francesco Sala era pronto a salvare oltre 27 varietà tipiche grazie all’ingegneria genetica, se la ricerca non fosse stata bloccata dall’ideologia e dai pregiudizi di chi è esperto in nulla, fuorchè nella diffusione demagogica delle proprie opinioni.

Mi permetto allora di porre io una domanda “aperta”, a Rampini, a Serra, ma anche a Petrini e Farinetti, e a tutti quelli che si sentono di mettere le proprie opinioni sullo stesso piano di quelle, documentate, della maggioranza di esperti che passano la loro vita a studiare e a fare ricerca: dove trovate il coraggio per un tale atto di irresponsabile vandalismo? Non si tratta di una sorta di "disubbidienza intellettuale" per cui potrei anche simpatizzare, si tratta di posizioni inconsapevolmente sobillatorie: dove può finire una società in cui il senso comune impara a diffidare degli esperti e ad omologarsi agli opinuionisti? Siete grandi gourmet, iniziate a selezionare più accuratamente anche le informazioni che date in pasto al senso comune.