L’antibiotico-resistenza sta diventando, silenziosamente, una delle grandi emergenze sanitarie del nostro tempo. Per farvi fronte occorre abbattere le barriere tra settori produttivi, discipline scientifiche e ambienti sanitari, e soprattutto mettere in rete dati certi sul consumo dei farmaci antibiotici. Anche il settore zootecnico italiano si sta finalmente adeguando a questa necessità.

 

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Con l’acronimo AMR (anti-microbic resistance, in italiano resistenza antimicrobica o antibiotico-resistenza) si definisce la capacità, da parte di alcuni batteri, di sviluppare resistenza ai farmaci antibiotici con i quali vengono comunemente trattati. Questo provoca, come prima conseguenza, la riduzione dell’efficacia degli antibiotici nella cura delle malattie.

L’antibiotico-resistenza è un fenomeno che ha a che fare con l’evoluzione naturale: in un ambiente sfavorevole tendono a sopravvivere solo gli individui che sviluppano capacità particolari, che consentono loro di sopravvivere mentre gli altri individui della stessa specie soccombono.

È il fenomeno che consente alle varie specie viventi di adattarsi progressivamente ai diversi habitat: se l’habitat dei batteri, gli organismi nei quali tendono ad annidarsi, è caratterizzato dalla presenza costante di farmaci antibiotici, inevitabilmente questi diventeranno il principale “motore” della selezione naturale, quindi sopravvivranno e si diffonderanno i ceppi nei confronti dei quali questi farmaci sono inefficaci. Un processo di mutazione genetica che è tanto più rapido quanti più antibiotici si usano. Per questo la diffusione dell’antibiotico-resistenza è strettamente legata all’abuso dei farmaci antibiotici: più se ne abusa, più si rischia di vanificarne l’efficacia.

Secondo l’ultimo rapporto sull’AMR curato dall'Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) e dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) dell’Unione Europea, ogni anno 25.000 persone muoiono a causa di infezioni causate da batteri resistenti agli antibiotici, mentre l’OCSE stima in 700.000 il numero annuale dei possibili decessi nel mondo a causa della resistenza antimicrobica. Ha detto Vytenis Andriukaitis, commissario europeo per la salute e la sicurezza alimentare: "La resistenza agli antimicrobici desta forte allarme poiché mette in pericolo la salute umana e animale. Abbiamo messo in campo notevoli sforzi per arrestarne l'aumento, ma ciò non basta. Dobbiamo essere più veloci, più forti e agire su parecchi fronti”.

Una vera e propria priorità di sanità pubblica, quindi, non solo per le implicazioni cliniche, ma anche per le ricadute economiche dell’impiego di farmaci e di procedure più costose e dell’allungamento delle degenze in ospedale. Anche la ricerca per produrre nuovi farmaci antimicrobici con i quali sostituire quelli la cui efficacia tende a ridursi è sempre più difficile e costosa.

Il rapporto ECDC-EFSA evidenzia anche che i livelli di antibiotico-resistenza in Europa variano per regione geografica, con i Paesi dell’Europa settentrionale e occidentale che hanno generalmente livelli di resistenza inferiori a quelli dell’Europa meridionale e orientale. Afferma Marta Hugas, responsabile dell’Unità “Pericoli biologici e contaminanti” dell'EFSA: "Queste variazioni geografiche sono probabilmente riconducibili alle differenze d’uso degli antimicrobici nell’UE. Ad esempio i Paesi in cui sono state intraprese azioni per ridurre, sostituire e ripensare l’uso degli antimicrobici negli animali mostrano livelli più bassi di resistenza agli antimicrobici e una tendenza alla diminuzione”.

L’AMR può essere indotta da molti fattori concomitanti, tra i quali è complesso individuare la prevalenza caso per caso. L’abuso di antibiotici anche per le infezioni virali, o a titolo “precauzionale” senza che ve ne sia una reale necessità, ha senz’altro contribuito ad aumentare la diffusione di ceppi resistenti. L’Italia, tra l’altro, è uno dei paesi europei in cui si usano più antibiotici. Ma non c’è solo l’abuso di antibiotici nel trattamento delle malattie umane: si registra un uso eccessivo di antibiotici anche negli allevamenti zootecnici, e questa è considerata una delle cause della diffusione di ceppi batterici resistenti.

È un fenomeno noto da tempo, che aveva indotto l’Italia già nel 1999 a ridurre drasticamente l’uso degli antibiotici come promotori della crescita negli allevamenti, prima che questo tipo di impiego venisse definitivamente bandito in Europa nel 2003. Oggi sappiamo che alcuni batteri come Salmonella e Campylobacter hanno sviluppato resistenza agli antimicrobici, e questo suscita molta preoccupazione: alcuni di questi antibiotici sono infatti usati anche nel trattamento delle malattie dell’uomo - trattamento la cui efficacia potrebbe essere compromessa.

Tutto questo conduce alla necessità di affrontare il problema attraverso un approccio cosiddetto “one health”, multisettoriale, collaborativo e multidisciplinare, nella prospettiva della prevenzione e della mitigazione del rischio dello sviluppo di ceppi batterici antibiotico-resistenti nei diversi ambienti umani e animali. Un approccio fatto proprio dalle istituzioni europee: il Consiglio Europeo, a giugno dello scorso anno, ha raccomandato agli Stati membri di istituire prima della metà del 2017 un piano d'azione nazionale contro la resistenza agli antimicrobici e di redigere, congiuntamente con la Commissione Europea, un nuovo piano di azione globale coerente con l’approccio “one health”.

Le misure raccomandate devono essere tese, tra le altre cose, a prevenire le infezioni e garantire un uso prudente degli antimicrobici nella medicina umana e veterinaria, a contrastare le pratiche illecite relative al commercio e all'uso degli antimicrobici nella medicina umana e veterinaria, al monitoraggio costante e alla sorveglianza sulla resistenza agli antimicrobici negli esseri umani, negli alimenti, negli animali e nell’ambiente, sia a livello di Stati membri che di UE. Migliorare la qualità e la comparabilità dei dati comunicati all'ECDC, all'EFSA e all'EMA circa il ricorso agli antimicrobici e la resistenza negli esseri umani, negli animali, nella catena alimentare e nell’ambiente è un passaggio fondamentale per perseguire i risultati di farmacovigilanza prefissati.

Purtroppo la qualità dei dati disponibili in Italia sull’uso dei farmaci veterinari negli allevamenti non è delle migliori, e questo rappresenta un serio ostacolo al raggiungimento degli obbiettivi prefissati. Come rileva anche la Relazione al PNI 2015, “permane l’incoerenza dei risultati ottenuti dalle attività di farmacosorveglianza, in termini di basso numero di prescrizioni veterinarie, rispetto ai dati di vendita degli antimicrobici veterinari”. Una situazione che da una parte suggerisce un uso eccessivo e “sommerso” - quindi non tracciabile - di farmaci antibiotici, con tutte le conseguenze del caso in termini di aumento dell’AMR, dall’altra impedisce di contribuire costruttivamente agli impegni di farmacovigilanza assunti in sede europea.

L’opacità dei dati sulla prescrizione e la vendita dei farmaci veterinari può portare anche a una colpevolizzazione generalizzata e acritica dell’uso dei farmaci negli allevamenti. Invece l’uso degli antibiotici nel settore zootecnico è fondamentale per controllare le malattie infettive e garantire livelli adeguati di benessere animale e di qualità nelle produzioni alimentari di origine animale. È necessario affrontare la sfida dell’antibiotico-resistenza evitando di cadere in facili semplificazioni, per trovare risposte adeguate che non pregiudichino le conquiste fin qui conseguite in termini di salute, benessere e di sicurezza alimentare.

Sempre secondo la Relazione al PNI 2015 “risulta quanto mai necessaria l’adozione di un sistema di tracciabilità del medicinale veterinario onde evitare la sottostima del dato relativo ai volumi di prescrizione, per prevenire il commercio illecito dei medicinali e per contrastare il fenomeno della resistenza antimicrobica”.

La Direzione Generale della sanità animale e dei farmaci veterinari ha avviato, nel 2013, la sperimentazione “Tracciabilità del farmaco veterinario”, alla quale si è aggiunta nel 2015 quella della ricetta elettronica, che mira ad informatizzare la gestione della movimentazione dei medicinali veterinari, dalla prescrizione alla somministrazione.

La ricetta elettronica permetterebbe di seguire il percorso di ogni confezione di farmaci: il veterinario, effettuata la diagnosi, esegue la prescrizione attraverso un’app su tablet o pc, inserendo il codice aziendale da anagrafe bovina, i dati dell’animale dal registro di stalla e individuando il farmaco nel prontuario. Alla prescrizione viene attribuito un codice PIN che permette all’allevatore di informarsi sulla disponibilità dei farmaci presso i grossisti abilitati alla vendita diretta e le farmacie, mentre queste ultime possono scaricare la ricetta attraverso il PIN, e consegnare le confezioni richieste registrando anche la data di scadenza del medicinale e il lotto di provenienza. Una modalità analoga sarebbe prevista anche per le scorte.

Il “livello sperimentale” con ogni probabilità sarà superato - è notizia degli ultimi giorni - grazie alla Legge Europea 2017. Il testo della legge, non ancora reso noto ufficialmente mentre scriviamo questo articolo, al fine di recepire le disposizioni della direttiva 2001/82 CE, disporrebbe l’obbligo di prescrivere i medicinali veterinari attraverso la ricetta elettronica a partire dal 2018. Una notizia che è stata salutata con favore dagli operatori della filiera: Roberto Rebasti, presidente di Ascofarve (l’associazione dei distributori di farmaci veterinari), sottolinea come i vantaggi dell’introduzione della nuova procedura digitale superino gli svantaggi, e come quest’ultima accolga sostanzialmente le richieste della sua associazione che proprio a questa problematica ha dedicato l’assemblea nazionale del 5 maggio scorso: “Ci vorrà un periodo di adattamento per rodare il sistema, ma la nuova procedura va nella direzione giusta, quella dell’efficientamento dei controlli ma anche dello snellimento delle procedure. Il sistema attuale - prosegue Rebasti - non solo non è efficiente per il contrasto alle frodi, ma favorisce il proliferare di errori formali che possono essere causa di pesanti sanzioni”.

L’introduzione della ricetta elettronica costituirebbe una novità importante per tutta la filiera del farmaco veterinario, della quale fanno parte le aziende farmaceutiche, il SSN, i distributori e i grossisti, le farmacie e le parafarmacie, fino alle aziende zootecniche. Un cambiamento di approccio necessario, anche a livello di mentalità, che dovrà interessare e coinvolgere attivamente tutti i protagonisti del settore, in una condivisione responsabile delle responsabilità e dei costi da sostenere per l’introduzione e l’implementazione del nuovo meccanismo di ricetta elettronica e delle banche dati correlate.

L’antibiotico-resistenza sta diventando, silenziosamente, una delle grandi emergenze sanitarie del nostro tempo. Per farvi fronte occorre abbattere le barriere tra settori produttivi, discipline scientifi-che e ambienti sanitari, e soprattutto mettere in rete dati certi sul consumo dei farmaci antibiotici. Anche il settore zootecnico italiano si sta finalmente adeguando a questa necessità.