Da un lato la difficoltà di interpretare i dati sull’ondata di segnalazioni di danni neurologici nei feti e nei neonati; dall’altro il forte sospetto di aver sottovalutato in passato gli effetti del contagio virale in altre aree del mondo. In mezzo un allarme mondiale in cui la parola d’ordine è incertezza. Dopo Ebola, il caso Zika evidenzia ancora una volta le grandi difficoltà che abbiamo nell’affrontare i pericoli che si celano dietro le crisi sanitarie.

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Se il contagio da Zika si sta pian piano diffondendo su scala globale, con i primi casi segnalati anche in Europa, nel momento in cui scriviamo rimane ancora una forte incertezza non solo sulla reale correlazione tra il virus e i suoi effetti sullo sviluppo neurologico dei feti, ma anche sulla sua reale portata, pur ammettendo un contributo di Zika nel generare nuovi casi di microcefalie o altri problemi.

La questione principale - scrive la rivista scientifica The Lancet in un editoriale del 24 febbraio - è: se c’è un collegamento, perché stiamo vedendo solo ora i suoi effetti neurologici, quando il virus è presente negli esseri umani in Africa e Asia da oltre 60 anni? La risposta potrebbe derivare dalla dimensione delle precedenti epidemie e dal mancato riconoscimento, al tempo, di nuovi casi di disordini neurologici da parte delle autorità sanitarie”.

Questa è una possibilità che i ricercatori stanno esplorando, cercando di ripercorrere quelle epidemie e di estrarre nuovi dati o di mettere in evidenza quelli passati sotto traccia. Insomma, forse stiamo vedendo oggi quello che avremmo dovuto vedere ieri e che, per vari motivi, abbiamo ignorato o declassato nella nostra scala delle priorità. In ogni caso questo dubbio ci ricorda ancora una volta che, tra i bagagli di un mondo dove – fortunatamente, è bene ribadirlo - ci si sposta con molta più facilità, ci sono anche virus, batteri e, dunque, malattie. Significa cioè che anche le piccole epidemie in luoghi remoti ci riguardano da vicino e agire sempre con tempestività è un fattore cruciale sia su scala locale che globale.

Ma c’è anche un altro fattore che rende il caso Zika molto complesso, ed è che i dati che provengono dal Brasile sono tutt’altro che certi e affidabili. Innanzitutto c’è la questione che riguarda il numero di microcefalie accertate dopo l’esplosione dell’epidemia a fine 2015 e che ha portato all’allarme globale lanciato dell’Oms a inizio febbraio: su oltre 5mila segnalazioni, quelle confermate finora dal Ministero della sanità brasiliano sono poco meno di 600, mentre 950 sono state scartate (le altre sono ancora sotto scrutinio). Ebbene: di quei circa 600 casi confermati, solo una settantina sono stati messi in relazione a Zika tramite l’analisi del sangue. Non è la “prova contraria” che scagiona il virus, ma dà comunque l’idea di come il fenomeno sia al momento molto difficile da valutare anche solo dal punto di vista quantitativo.

Qui si innestano due ulteriori problemi: da un lato la mancanza di un parametro standard utilizzato fin dall’inizio per misurare la microcefalia, dall’altro il fisiologico aumento delle segnalazioni “preventive” per ogni caso minimamente sospetto, che ha “sporcato” la raccolta dei dati. E a tutto questo va aggiunto che, con molta probabilità, il Brasile ha storicamente sottostimato di molto l’incidenza della microcefalia nella popolazione neonatale, come sembrano confermare due studi pubblicati dall’Oms. In uno di questi, condotto da Sandra da Silva Mattos e colleghi del Círculo do Coração de Pernambuco su 16mila referti provenienti da 21 centri medici dello stato di Paraíba, emerge che i casi di microcefalia erano elevati già dalla fine del 2012, con un picco nel 2014, dunque anche prima di un eventuale arrivo di Zika con la Coppa del Mondo.

E ancora, se man mano arrivano nuove evidenze del fatto che Zika si trasmetta anche per via sessuale e non solo tramite la puntura di zanzara Aedes, e che sia in grado di superare la barriera della placenta, non esiste finora una spiegazione della sua sospetta relazione con i danni neurologici. Né si può ignorare che Zika si aggiunge ad altre epidemie, come la Dengue, e colpisce principalmente in regioni povere e malnutrite del Paese. Non a caso Mattos e colleghi suggeriscono nel loro studio che Zika possa essere una concausa più che un fattore a se stante. Insomma, più che aver premuto il grilletto, Zika potrebbe aver solo tolto il silenziatore alla pistola, facendo emergere - probabilmente aggravandolo - un problema che era già sotto i nostri occhi.

Ovviamente, finché i ricercatori non sono in grado di disegnare con maggiore certezza il quadro dell’epidemia e di mettere a sistema le nuove conoscenze sul caso, ci si muove nel mondo delle probabilità, dove identificare e controllare il rischio è molto più complesso, ancora di più se le vittime sono dei bambini. Per questo l’allarme dell’Oms ha un senso ed è sotto questa lente che va analizzato: non è solo una questione di prudenza, ma anche di (altissima) responsabilità. Perché è meglio scoprire a posteriori di essersi spaventati troppo, piuttosto che vivere col cruccio di non aver fatto tutto il possibile per salvare delle vite, soprattutto se c’è già il sospetto di essere arrivati in ritardo.