Pascale lucchetti 

Di loro (e di se stessa) Alda Merini disse: "ho cominciato a piangere per gioco, e poi ho creduto
 che fosse il mio destino". Eppure i pazienti del Centro diurno “Pasquariello” - Asl Roma 1 - sorridono e sembrano felici di ricevere visite. Soprattutto, sono orgogliosi di raccontare quello che fanno. E Adele, Vito, Fabio, Gianluca, Elio, Gabriele e Fabrizio di cose belle ne fanno eccome!

Ci sono il laboratorio di scrittura, quello di foto e di video, di informatica e grafica, c’è il gruppo che si occupa di estetica, c’è anche il corso di cinema: le attività settimanali del Centro Diurno sono numerose. Tra le attività che animano il Centro, c’è anche un bel progetto curato da Stefano Martinez, “operatore di laboratorio”: protagonisti gli stessi pazienti che - lottando contro depressione, sbalzi d’umore, effetti collaterali dovuti ai farmaci assunti, spesso molto forti - fanno da “Cicerone” e conducono, al pari di perfette guide turistiche, i cittadini alla scoperta del territorio su cui vivono.

Durante le visite guidate Vito, Gianluca e gli altri sembrano orgogliosi di suscitare, finalmente, stupore e interesse nei presenti. Non solo per la loro fragilità ma perché, finalmente, sono ascoltati e apprezzati.

E così: la cura delle parole scelte da Fabio, la timidezza a occhi bassi di Vito, l'orgoglio di Gianluca che prepara la tesi dopo anni di "depressione", l'emozione delle mani che tremano di Adele. Tutto appare come una risorsa su cui lavorare e non solo come uno svantaggio per sopravvivere e resistere.

 

Un dolore “pazzesco”

“La sofferenza mentale ha le sue regole, la sua imprevedibilità, è unica, ma ha anche basi che la rendono (parzialmente) decifrabile”, dice Fabio Candidi, responsabile del Centro.

“Mi sono spesso occupato del dolore, credo di essere uno specialista, uno specialista che si diverte, che gioca e che scherza con il dolore. Che ironizza, deride il dolore, ma lo rispetta, lo dissacra, ma lo ascolta”. 
Se non ci si occupa del dolore non si può comprendere il disagio mentale, sostiene Fabio. “La letteratura ce ne dà tanti straordinari esempi”, e cita C.S. Lewis e il suo Diario di un dolore che descrive gli effetti del dolore, addirittura, sul corpo di chi lo prova: “Nessuno mi aveva detto”, scrive Lewis, “che il dolore assomiglia tanto alla paura. La somiglianza è fisica. Gli stessi sobbalzi dello stomaco, la stessa irrequietezza, gli sbadigli. Inghiotto in continuazione. Altre volte è come una ubriacatura leggera, o come quando si sbatte la testa e ci si sente rintronati”.

 

Un po’ di storia

I primi Centri Diurni sono nati in Italia agli inizi degli anni ‘80, ma è dal decennio successivo che si sono diffusi sul territorio, maturando quindi una considerevole esperienza, soprattutto, in quanto promotori di una cultura dell’integrazione nelle sue diverse sfaccettature.

La maggior parte dei pazienti che frequentano i Centri, soffrono di disturbi psicotici: si tratta di persone che hanno un codice di pensiero diverso dalle altre. Nella psicosi la dimensione del tempo è profondamente diversa, così come i criteri logici: se nella relazione terapeutica non si tiene conto di questa differenza, difficilmente gli interventi potranno essere efficaci: “Quando il disturbo psicotico è più grave, le persone che ne soffrono, più o meno consapevolmente, cercano di svuotare di senso la maggior parte delle cose che li riguarda. Tutto viene appiattito e neutralizzato, tutto accade all’interno di una cornice di prevedibilità”.

Il motivo è comprensibile: nella loro storia queste persone hanno provato un livello di sofferenza talmente grande, talmente devastante, da non poter essere tollerato e dover ricorrere a meccanismi di scissione. “Hanno dovuto rompere con la realtà, crearsi una propria realtà più accettabile, costruirsi un mondo alternativo”; sono “impazziti” per allontanarsi da quel dolore, che anche nel linguaggio comune viene definito “pazzesco”. Ecco che i tentativi di integrazione sono vissuti come un grande pericolo, perché rischiano di ripresentare quel dolore da cui hanno cercato e continuano a cercare di proteggersi.

 

La cura possibile

Con un'età compresa tra i 18 ed i 65 anni, anche a Roma i centri sono diffusi su tutto il territorio cittadino e prevedono sia la presenza di una mini équipe multidisciplinare della Asl responsabile del progetto terapeutico-riabilitativo e della realizzazione delle attività di carattere sanitario, sia la presenza di operatori inseriti in cooperative sociali integrate che gestiscono le attività espressive (artistiche, teatrali, musicali, ecc.), di formazione professionale (laboratori di giardinaggio, vetreria, tessitura, falegnameria, restauro mobili, computer grafica, catering, ecc.) e ricreative risocializzanti (partecipazioni a eventi e spettacoli, visite ai musei, gite, attività sportive, ecc.). La mini equipe si occupa della parte più propriamente clinica, colloqui con i pazienti e le loro famiglie, gruppi terapeutici per gli utenti e gruppi multifamiliari.

“Una delle specificità del Centro Diurno”, spiega Candidi, “è quella di avere a che fare con persone che, se pur portatrici di sofferenze, di disturbi mentali, vanno però curate proprio partendo dal riconoscerli in primo luogo come persone più che come malati: è prendendosi cura di loro e delle loro circostanze, con questo tipo di approccio, che il trattamento della malattia può avere maggiore efficacia”.

“Spesso sono proprio gli utenti a non riconoscersi questo diritto”, spiega, e uno dei compiti degli operatori è “aiutarli ad ascoltarsi e a decifrare quei segnali, spesso incomprensibili, del disagio che impedisce loro di vivere”.

pasquariello

 

Il Centro diurno Pasquariello

Ciascuno nel proprio ruolo, Fabio, Rita e Stefano sono completamente dedicati a questo posto e al suo “progetto di cura”. Talmente tanto che rischiano di esserne “sopraffatti”. Anche perché combattono contro ostacoli esterni, di carattere strutturale e burocratico. Stefano, come “insegnante della formazione”, per mettere insieme uno stipendio decoroso, deve fare i salti mortali e quasi mai i pagamenti sono puntuali. Fabio si sente solo: tutto il Centro può contare solo su uno psicologo e un’infermiera mentre, a regime, ha almeno due infermieri e un tecnico di riabilitazione, attualmente in aspettativa e in maternità.

Il problema più grande, dunque, è legato alla diminuzione del personale che opera sia nei Centri di salute mentale che nei Centri Diurni: entrambi in grande sofferenza, ambedue articolazioni dell’assistenza psichiatrica pubblica. Parliamo di un calo del personale - in dieci anni - pari a circa il 40 per cento. Proprio a causa della carenza di personale, nel secondo trimestre del 2017, il Centro Pasquariello ha perso quasi trenta pazienti su circa novantacinque e ha erogato circa duecento prestazioni in meno, rispetto all’anno precedente. Non sono solo numeri: pensiamo per un attimo a tutte le famiglie abbandonate a se stesse, al loro disagio, al dramma quotidiano, allo sconvolgimento subìto dalle loro vite.

 

Cura e integrazione sociale

“Nel corso degli anni abbiamo elaborato procedure innovative per quanto riguarda i processi di cura e di integrazione sociale, anche se a volte queste procedure sono in parte rimaste implicite”. Di fondamentale importanza è il rapporto con le famiglie degli utenti, ma con un personale così ridotto, è un aspetto molto difficile da curare e valorizzare. Ciò nonostante non ci si perde d’animo e con creatività si cerca di sopperire alla carenza di risorse. Rita negli ultimi anni si è inventata un laboratorio di estetica rivolto alle ragazze e donne del DSM, un gruppo molto frequentato e di grade convivialità con degli effetti riabilitativi molto importanti.

“I familiari sono parte integrante del processo terapeutico e vanno aiutati a comprendere e condividere il percorso terapeutico”, spiega Candidi. Spesso, stremati dalla fatica, “le famiglie dei pazienti si sentono sconfitte e, inevitabilmente, si trovano a boicottare il percorso”. Con conseguenze disastrose.

Nei Servizi si è sviluppata una capacità di ascolto e di dialogo con chi soffre, che non si limita a proporre risposte precostituite, ma cerca di costruire percorsi di cura comuni. Una sorta di lavoro in progressione: “I nostri pazienti ci hanno insegnato moltissimo, non solo da un punto di vista umano, ma anche sullo stesso funzionamento della mente”, conclude Candidi. Ad esempio, “ci hanno insegnato”, dice, “che bisogna perdere la nostra identità per ritrovarla”.

Fabio, Rita e Stefano vivono a volte, sulla propria pelle, lo stesso dramma dell’isolamento sofferto dai loro pazienti e dalle relative famiglie: dall’altro lato della barricata. È ingiusto, oltre che contrario a qualsiasi logica a cui il servizio sanitario dovrebbe rispondere per statuto, che la psichiatria territoriale sia governata con così poche risorse. Vito, Gianluca, Adele, Fabrizio, Fabio, Elio e gli altri hanno diritto alla cura come qualsiasi altro malato. Fabio, Rita e Stefano hanno diritto ad avere tutti gli strumenti per lavorare bene, nell’interesse di tutti.