Hibot

“I nostri robot? Salvano vite umane ogni giorno”. Michele Guarnieri, partito dalla provincia di Mantova per arrivare al Tokyo Institute of Technology e poi alla bonifica del sito di Fukushima, ne è convinto e lo ribadisce molte volte mentre parliamo.

Era il 2001 quando Guarnieri, fresco di laurea in informatica a Verona, rinunciò al sogno di andare a perfezionarsi negli Stati Uniti e “ripiegò” sul Giappone, perché l’anno accademico cominciava prima e ci sarebbero state maggiori possibilità di ottenere una borsa di studio per frequentare un master. Riuscì ad entrare al prestigioso Tokyo Institute of Technology, dove incontrò il professor Hirose, uno dei maggiori nomi della robotica mondiale, e decise che quella sarebbe stata la sua strada.

Il sostegno di Hirose fu decisivo nel momento in cui il giovane nosedolese stabilì che non voleva seguire la strada battuta dalla maggior parte dei suoi colleghi di studi, ossia farsi assumere da una grande azienda, ma tentare di costruire qualcosa in proprio: la società Hibot è nata in un periodo in cui la nascita di startup in Giappone era ben lungi dall’essere incoraggiata. Tuttavia, il successo che la Hibot ha ottenuto (e i premi vinti, come quello del World Economic Forum nel 2015) ha fatto sì che oggi, in tempi ben più favorevoli per le startup e il venture capital, venga spesso citata come esempio positivo, e che i suoi fondatori siano invitati a parlare ai giovani per motivarli a seguire la loro strada, diventando a loro volta imprenditori.

“Nel 2004, quando abbiamo fondato la Hibot – ricorda Guarnieri sorridendo – le società spin-off del Tokyo Institute of Technology erano appena venti; oggi ce ne sono 180”. Modelli di business più dinamici, una rinnovata volontà del Giappone di investire in tecnologia, creando una propria risposta alla Silicon Valley, e lo spostamento degli investimenti dal software all’hardware nell’ambito della “rivoluzione 4.0” hanno fatto sì che la Hibot si trovasse al posto giusto nel momento giusto, quando molte grandi società hanno deciso di cominciare a investire seriamente nella robotica.

“Una delle ‘fissazioni’ dei giapponesi in questo ambito – spiega Guarnieri – è sempre stato il robot umanoide, perciò per molto tempo non è stato facile trovare finanziamenti per progetti che andavano in una direzione diversa: nel 2010 non si trovava nessuno che volesse investire nell’hardware. Nel 2011, però, con la catastrofe di Fukushima, molti si sono resi conto che aveva senso investire nello sviluppo di robot che non fossero sostitutivi dell’uomo, ma strumenti nelle sue mani, per fare lavori pericolosi in luoghi altrimenti inaccessibili, nell’ambito di una manutenzione attenta e costante delle infrastrutture, che spesso viene trascurata”.

“Pochi giorni dopo il collasso del secondo reattore – racconta - la Tepco ha cominciato a cercare aziende che potessero incaricarsi dell’esplorazione del sito e della bonifica, in un momento in cui non si capiva ancora bene come agire praticamente: la società di costruzioni Shimizu, fornitrice della Tepco, ha deciso di scommettere su di noi, segnalandoci al suo cliente. È stata una scommessa vinta: il project manager della Shimizu, nel farsi convincere dai video in cui mostravamo il funzionamento dei nostri snake robot, ha davvero visto lontano nel futuro. Le operazioni proseguono anche oggi, con due robot impegnati a saggiare lo stato e la posizione delle macerie sotto la copertura, muovendosi e fotografandole in modo da aiutare gli incaricati della bonifica a rimuoverle nel modo meno dannoso possibile. Il nostro progetto è partito con un po’ di ritardo rispetto a quello che ci si richiedeva, perché abbiamo dovuto fare ricerche molto approfondite e specifiche, ma abbiamo rinunciato a ogni prospettiva di guadagno, ci è bastato andare in pari, perché l’importante per noi, in quella situazione che ha avuto l’impatto di una catastrofe nazionale nel nostro Paese di adozione, era dare il nostro aiuto”.

“All’epoca – continua – stavamo cercando scienziati da assumere per il nostro reparto di ricerca e sviluppo, ma nessuno dall’estero voleva più venire a lavorare in Giappone, anzi, era molto più frequente che anche chi era qui decidesse di andarsene: noi stessi avevamo ricevuto un’offerta dal Canada per trasferire lì la società. Abbiamo però deciso di rimanere e di fare la nostra parte nella gestione del post-catastrofe, e questo ci ha aiutati ad accreditarci come azienda affidabile e innovativa. Se è vero che l’ambiente del business in Giappone è molto chiuso, è vero anche che il fatto che noi fondatori della Hibot venissimo dal Tokyo Institute of Technology ci ha aiutato ad inserirci, e oggi il nostro duplice approccio giapponese e “occidentale” alle questioni è considerato uno dei nostri pregi”.

Tuttavia, la Hibot non comincia e non finisce a Fukushima, ci tiene a precisare Guarnieri. “Parlare di ‘robot’ è un po’ limitante: quello che facciamo è creare strumenti, e il campo della robotica per servizi si sta espandendo sempre di più, mentre quello della robotica industriale comincia, a mio avviso, ad essere saturo. Puntiamo a coinvolgere attivamente i nostri clienti nella fase di progettazione: li aiutiamo a identificare uno scopo ben preciso e per quello scopo progettiamo lo strumento più adatto. Possiamo ben parlare di quello che è un caposaldo della quarta rivoluzione industriale, e cioè la customizzazione: è fondamentale definire bene la propria nicchia di mercato e all’interno di questa fare un grosso lavoro di ricerca e sviluppo, in modo da creare prodotti che rispondano perfettamente alle esigenze dei clienti. Con questo approccio siamo arrivati lontano, e puntiamo a quotarci in borsa, per dare alla nostra ricerca il valore che merita”.

“Lavoriamo – spiega - sia per società private che per progetti governativi: tanto una ditta privata quanto un’amministrazione pubblica può essere disposta a investire vari milioni di dollari per sviluppare uno strumento che serva a salvare vite umane e a rendere più efficiente il lavoro in settori pericolosi. Pensiamo alla manutenzione dei cavi dell’alta tensione, oggi affidata a tecnici che mettono a rischio la vita quotidianamente, tra l’altezza e gli altri pericoli, e inoltre col disagio di dover interrompere la fornitura di elettricità nelle zone interessate: il nostro Expliner fa sì che a compiere materialmente le operazioni su cavi e tralicci sia un robot, mentre i tecnici lo controllano da terra, minimizzando così il rischio dell’errore umano e le possibili cadute o scosse. Questo progetto ha subìto varie modifiche prima della messa in opera, dato che abbiamo dovuto valutare una serie di variabili come il vento, l’usura e il movimento dei cavi, lo spessore delle giunzioni e dei tralicci... è stato importante coinvolgere da vicino la società che ce lo aveva commissionato, in modo da tener conto delle esigenze man mano che si presentavano. Ecco che ritorniamo al discorso della customizzazione che facevo prima”.

L’entusiasmo di Michele è coinvolgente mentre parla degli altri progetti su cui la sua Hibot sta lavorando: “Abbiamo creato un robot specificamente per le operazioni di search and rescue in caso di terremoti, crolli o esplosioni, attualmente in uso presso la polizia giapponese, un altro per lo sminamento, e stiamo lavorando a un progetto che ci permetterà di fare ispezioni e manutenzione su ponti e viadotti senza usare macchinari ingombranti che prevedano la chiusura delle strade e senza mettere a rischio vite umane: in quest’ultimo abbiamo una decina di player concorrenti, ma noi siamo gli unici che non utilizzano i droni bensì i robot, perché riteniamo che siano uno strumento maggiormente personalizzabile rispetto allo scopo da ottenere. Crediamo molto, insomma, in un ritorno all’ingegnerizzazione”.

“Il nostro business si basa essenzialmente su due linee: o vendiamo licenze per prodotti che rispondono ad esigenze ‘standard’ e quindi possono essere utilizzati in un’ampia gamma di situazioni, o inventiamo e personalizziamo prodotti nuovi per rispondere agli scopi particolari dei nostri clienti, ed è qui che il nostro reparto ricerca e sviluppo si esprime al meglio. La progettazione spesso prende molto tempo, ma il prodotto che ne viene fuori è unico, a misura delle esigenze di chi si rivolge a noi, e, come dicevo prima, puntiamo molto sul coinvolgimento attivo del cliente in ogni parte del processo, dalla progettazione alla produzione alla messa in opera dello strumento”.

Sono progetti, quelli della Hibot, in cui molte risorse vengono messe in gioco, ma la posta in gioco è molto alta: “Da parte dell’industria, oggi, ci dev’essere grande flessibilità: i modelli di produzione standardizzati hanno fatto il loro tempo, e ad avere la meglio è chi sa adattare i propri sistemi di volta in volta alle esigenze che mutano. Investire in ricerca e sviluppo è fondamentale, sia nel settore pubblico che in quello privato, e fondamentale è anche saper ‘vedere nel futuro’, non dimenticando mai che le infrastrutture hanno bisogno di manutenzione, che i macchinari possono sempre essere migliorati e che le esigenze cambiano con una rapidità impensabile fino a qualche anno fa. Spendere una cifra a sei zeri in questo campo oggi fa guadagnare cifre molto più grosse domani. Chi capisce questo ha un grosso vantaggio sui concorrenti”.

Ma insomma, in conclusione, questi robot stranieri rubano il lavoro alla gente o no? “Nei campi in cui applichiamo i nostri strumenti, posso dirti che il lavoro e il know-how umano non spariscono, e anzi, grazie a noi i tecnici possono operare in modo più sicuro per se stessi e per gli altri, continuando ad applicare le loro competenze teoriche e pratiche, ma senza rischiare di cadere da un ponte, di perire sotto un crollo o di esporsi a radiazioni pericolose. Insomma, oltre a non rubarci il lavoro, i robot ci possono davvero migliorare la vita”.