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Non conosco, credo che nessuno di noi conosca, le ragioni che hanno spinto una insegnante sarda malata di cancro a interrompere i cicli di chemioterapia ai quali si era inizialmente sottoposta, e ad affidarsi ad alcune cosiddette "terapie alternative”.

Se ne è parlato molto negli ultimi giorni, anche perché il caso ha seguito a breve distanza temporale la morte della ragazza diciottenne - ma ancora minorenne al tempo della scelta - spinta dai genitori a rifiutare terapie con non trascurabili probabilità di successo contro la leucemia. Ne avevamo parlato anche qui su Strade. Anche in quel caso c’era una terapia “alternativa” in ballo, quella del noto truffatore tedesco Hamer.

Sono casi diversi l’uno dall’altro: in uno c’è in ballo un minore, e quindi la potestà di chi si ritrova improvvisamente in mano il potere di vita e di morte su una persona che la legge non riconosce in grado di scelte autonome - chi deve decidere? Il padre? Il medico? - e che riporta il dibattito in quella stessa zona grigia delle scelte sul fine-vita in caso di persone non presenti a loro stesse, di fatto o di diritto, mentre nell’altro la scelta è squisitamente personale.

Eppure è ingiusto banalizzare tutto quanto come sta avvenendo in questi giorni, ridurre tutto al dualismo ignoranza/conoscenza - “scemoterapia” è il termine usato da Filippo Facci - come se la conoscenza non possa che condurre a una scelta e a una soltanto. Sono molti quelli che, ogni giorno, rinunciano a sottoporsi alle pesanti - benché spesso efficaci - terapie previste dalla moderna oncologia. Per ignoranza, certo. Per fatalismo a volte, ma anche per troppa conoscenza. Un bellissimo articolo di Ken Murray, che andrebbe spesso riletto, documentava proprio questo: la scelta di non sottoporsi a terapie dolorose e invasive per la cura dei tumori è molto frequente tra i medici, che quelle terapie conoscono bene proprio perché le impartiscono ai loro pazienti.

La scelta tra quantità e qualità di vita non si esaurisce nelle percentuali di successo delle varie terapie, ma ha intimamente a che fare con la dignità personale, con ciò che ognuno di noi considera una vita degna di essere vissuta. Ha a che fare con il dolore, fisico e morale, con il rispetto di se stessi - lo stesso rispetto di se stessi che può indurre un prigioniero politico a preferire il boia piuttosto che diventare un delatore, nonostante una percentuale di salvezza del 100 percento - con l’idea, anch’essa intima e personale, che ognuno ha della propria morte e del modo preferibile per avvicinarsi ad essa.

“Fare tutto il possibile” per allungare la vita: Ken Murray nel suo articolo raccontava di come questa sia la ben comprensibile ossessione dei parenti dei malati che si rivolgono a un medico, ma non quella dei malati stessi, né quella dei medici quando sono loro a vestire i panni del paziente. Rispetto alle cosiddette “terapie alternative”, poi, è giusto distinguere tra la severità necessaria verso chi le propina, rispetto al giudizio verso chi ne usufruisce: è difficile dire se vengano scelte per l’effettiva illusione che porti maggiori possibilità di guarigione rispetto alla chemioterapia o alla chirurgia, oppure per il bisogno di “fare qualcosa” nell’attesa della fine. Ci si può anche affidare alle preghiere, e nessuno busserà per a chiedere se ci si crede davvero, né parlerà di “scemoterapia”.

La posta in gioco, in casi come questi, è talmente alta, definitiva e personale da non meritare lo scherno e la commiserazione, meno che mai il paternalismo. In qualche caso è meglio l’indifferenza, semmai.

@giordanomasini